Gaza, Ramadan di sangue
Reportage Il mese più importante per i musulmani arriva dopo la strage di lunedì e trova una popolazione sempre più povera che non potrà festeggiare. Israele continua a rifiutare ogni responsabilità e rivolge nuove accuse ad Hamas
Reportage Il mese più importante per i musulmani arriva dopo la strage di lunedì e trova una popolazione sempre più povera che non potrà festeggiare. Israele continua a rifiutare ogni responsabilità e rivolge nuove accuse ad Hamas
Nel mercato popolare di Jabaliya i banchi dei commercianti sono colmi di merci. Verdure, dolci, pesci, giocattoli, frutta fresca e secca. Il clima però è cupo. Si sono appena conclusi i funerali delle decine di palestinesi uccisi lunedì dal fuoco dei tiratori scelti israeliani e i prossimi giorni potrebbero portare altri lutti e dolori alla gente di Gaza resta stretta nel blocco israeliano. Oggi comincia il Ramadan e ogni famiglia vorrebbe acquistare quanto serve per l’iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno dei musulmani in questo mese. Rafiq Abu Saad si aggira tra i banchi colorati ma si limita ad osservare. «Non ho soldi» ci dice «da Ramallah non mi versano più lo stipendio e sono indebitato con amici e parenti». Rafiq è uno delle migliaia di palestinesi dipendenti dell’Autorità Nazionale vittime dello scontro tra il presidente Abu Mazen in Cisgiordania e il movimento islamico Hamas. Scontro che ha un impatto diretto sulla popolazione di Gaza e che si aggiunge al blocco praticato da Israele. Il governo di Ramallah ha congelato i versamenti nelle banche di Gaza convinto di mettere la popolazione contro gli islamisti decisi a non cedere il controllo di Gaza. «Lo stipendio non lo ricevono neanche i dipendenti del governo di Hamas perché (il movimento islamico) ha le casse vuote. Perciò nessuno ha a soldi per il Ramadan», aggiunge Rafiq.
A Gaza è tutto fermo, l’economia è paralizzata, i commercianti hanno merci che venderanno con grande fatica e difficilmente potranno pagare i fornitori. Decine di migliaia di famiglie vivono indebitandosi e grazie agli aiuti umanitari. Dall’altra parte delle linee di demarcazione decide tutto Israele, su cosa e chi entra o esce dalla Striscia. E le proteste popolari contro il blocco sono disperse con il fuoco dei tiratori scelti. Per Israele e per gli Stati uniti la responsabilità è solo di Hamas e gli oltre cento palestinesi uccisi dai cecchini sulle barriere di demarcazione in un mese e mezzo, erano in buona parte dei “terroristi”. «Hamas è un mucchio di cannibali che usa i bambini come munizioni…Cosa sarebbe successo se quella marmaglia fosse riuscita a violare la sovranità e irrompere in una sola comunità (ebraica)? I nostri soldati hanno agito in conformità con le norme etiche», ha commentato ieri il ministro della difesa israeliano Liebermam rispondendo alle critiche e condanne internazionali piovute sul governo Netanyahu dopo la strage di lunedì. Israele respinge l’accusa di aver reso insostenibile, con la chiusura, da oltre 11 anni, dei valichi e le forti restrizioni ai movimenti delle persone, la condizione di oltre due milioni di civili a Gaza. Il Cogat, il suo coordimento militare per gli affari civili nei territori occupati, ripete nella Striscia non manca nulla di essenziale, dai farmaci al cibo. E punta il dito contro gli attivisti palestinesi che ieri hanno respinto, in segno di protesta per la strage di lunedì, due autocarri con aiuti israeliani destinati agli ospedali della Striscia da giorni in stato d’emergenza per il numero di feriti gravi.
Non condivide le rassicurazioni israeliane l’Ong internazionale Oxfam che ieri, attraverso il suo portavoce Paolo Pezzati, ieri ha avvertito che l’ostacolo più serio al miglioramento delle condizioni di vita a Gaza resta la chiusura dei valichi, in particolare quello commerciale di Kerem Shalom, non ancora operativo dopo i danni subiti durante le proteste palestinesi di alcuni giorni fa. «Andando avanti così – ha detto Pezzati – la popolazione rimarrà presto senza carburante, vitale per l’irrigazione dei pochi campi rimasti, che possono permettere alla popolazione di non morire di fame, così come per la desalinizzazione dell’acqua marina, da cui dipende l’accesso all’acqua potabile del 90% della popolazione di Gaza». La situazione umanitaria è disperata, ha sottolineato Pennati, «quasi la metà della popolazione non ha cibo a sufficienza, il tasso di disoccupazione è arrivato oltre il 40% e circa 23.550 persone ancora senza casa dalla guerra del 2014».
Non è destinato a portare particolare sollievo la decisione del Cairo di tenere aperto, ancora per qualche giorno il valico di Rafah, a sud di Gaza, in modo da consentire anche il trasferimento in ospedali egiziani di alcuni dei palestinesi feriti dal fuoco dei soldati israeliani in questi ultimi giorni. «Quel transito dovrebbe restare aperto, sempre» protesta Khalil Shahin, vice direttore del Centro per i diritti umani, «solo così potrà dare un aiuto importante alla popolazione di Gaza, di fatto tenuta prigioniera». Tuttavia, aggiunge Shahin, «è Israele, la potenza occupante, che più di ogni altro soggetto coinvolto deve dare la libertà di movimento alla popolazione occupata. Lo sancisce il diritto internazionale».
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