Gaza l’indomita, culla del nazionalismo
Il Diplò d'agosto Con quest’analisi di Alain Gresh, che racconta la tradizione di resistenza della popolazione palestinese, iniziamo a pubblicare alcuni articoli del Diplo di agosto: che questo mese non trovate in edicola come sempre in allegato, ma nelle pagine del quotidiano
Il Diplò d'agosto Con quest’analisi di Alain Gresh, che racconta la tradizione di resistenza della popolazione palestinese, iniziamo a pubblicare alcuni articoli del Diplo di agosto: che questo mese non trovate in edicola come sempre in allegato, ma nelle pagine del quotidiano
Privato della sua forza da Dalila che gli aveva tagliato i capelli, Sansone cadde nelle mani dei filistei – popolo dal quale nasce il nome «Palestina» –, che lo accecarono. Un giorno, lo fecero venire fra loro per deriderlo: «Sansone cercò a tastoni i due pilastri centrali che reggevano l’edificio. Si puntò contro di essi, con la destra e con la sinistra, urlando: ‘Muoia Sansone con tutti i filistei!’ e poi spinse con tutta la sua forza. L’edificio crollò, travolgendo i capi dei filistei e tutti gli altri. Così, Sansone uccise più persone con la sua morte che in tutta la sua vita». Questo famoso episodio riferito dalla Bibbia si svolge a Gaza, capitale dei filistei, popolo nemico degli ebrei.
Gaza è stata sempre un crocevia nelle rotte commerciali fra Europa e Asia, fra Medioriente e Africa. La città e il territorio si sono dunque trovati, fin dall’antichità, al centro delle rivalità fra le potenze dell’epoca, dall’Egitto dei faraoni all’Impero bizantino passando per Roma. Là, nel 634 della nostra era, avvenne la prima vittoria accertata sull’Impero bizantino da parte degli adepti di una religione ancora sconosciuta, l’islam; il profeta Maometto era morto due anni prima. Gaza rimase sotto il controllo musulmano fino alla prima guerra mondiale, con alcuni interludi più o meno lunghi: regni crociati; invasione mongola; spedizione di Bonaparte. «Facile da prendere, facile da perdere», spiega Jean-Pierre Filiu nel suo libro Histoire de Gaza (Fayard, Parigi, 2012), il più approfondito dedicato a questo territorio. Il generale britannico Edmund Allenby strappò Gaza, porta della Palestina, all’Impero ottomano il 9 novembre 1917, aprendosi così la strada verso Gerusalemme, dove entrò l’11 dicembre.
Per Londra, non si trattava solo di battere il sultano, alleato della Germania e dell’Impero austro-ungarico, ma di assicurarsi il controllo di un territorio strategico e garantire la protezione del fianco est del canale di Suez, vena giugulare dell’impero, via di comunicazione vitale fra il viceregno delle Indie e la metropoli. I britannici dunque sconfiggono le ambizioni francesi in Terra santa. Nel 1922, ottengono il mandato della Società delle Nazioni (Sdn) per amministrare il territorio che da allora viene chiamato «Palestina», e al quale Gaza appartiene. Hanno anche il compito di applicare la «dichiarazione di Balfour», cioè aiutare a creare una patria nazionale ebraica e incoraggiare l’immigrazione sionista; lo fanno con zelo fino al 1939.
Gaza e la sua regione prendono parte a tutti i combattimenti dei palestinesi, musulmani e cristiani, contro la colonizzazione sionista e contro la presenza britannica. Contribuiscono alla grande rivolta palestinese del 1936-1939, schiacciata infine dai britannici. Una sconfitta che priva a lungo i palestinesi di una qualsivoglia direzione politica, lasciando ai governi arabi il compito – se così si può dire – di difendere la loro causa.
Il 15 maggio 1948, all’indomani della proclamazione dello Stato di Israele, gli eserciti arabi entrano in Palestina. Prima guerra, prima disfatta araba. Il territorio previsto per lo Stato di Palestina dal piano di spartizione votato all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 29 novembre 1947, va in frantumi. Israele annette una parte, la Galilea. La Giordania assorbe la riva occidentale del Giordano, conosciuta come Cisgiordania. La striscia di Gaza – un territorio di 360 chilometri quadrati che comprende le città di Gaza, Khan Younis e Rafah – passa sotto l’amministrazione militare egiziana; resta l’unico territorio palestinese sul quale non viene esercitata alcuna sovranità straniera. Agli ottantamila abitanti autoctoni si sono aggiunti oltre duecentomila rifugiati espulsi dall’esercito israeliano, i quali vivono miseramente e sognano solo il ritorno a casa. Questa massiccia presenza di rifugiati e lo status particolare del territorio faranno di Gaza uno dei centri del rinascimento politico palestinese.
Malgrado il controllo da parte del Cairo – esercitato prima dal re, poi da Gamal Abdel Nasser e dagli «ufficiali liberi» che nel 1952 hanno rovesciato la monarchia –, i palestinesi si organizzano in modo autonomo, effettuano azioni di guerriglia contro Israele, manifestano contro ogni tentativo di insediare definitivamente a Gaza i rifugiati. Già allora, Israele compie pesanti rappresaglie, nelle quali si distingue per la sua brutalità un giovane ufficiale ancora sconosciuto: Ariel Sharon.
Il 28 febbraio 1955, Sharon comanda un raid contro Gaza che fa trentacinque morti fra i soldati egiziani (oltre a uccidere due civili) e otto fra gli israeliani. Il primo marzo, su tutto il territorio si tengono grandi manifestazioni di protesta contro la passività egiziana. Questo produce una svolta nella politica estera dell’uomo forte dell’Egitto, Nasser. Fino ad allora considerato da molti suoi concittadini piuttosto vicino agli Stati uniti, egli decide, in piena guerra fredda, di avvicinarsi a Mosca. Mentre si reca alla conferenza di Bandung che, nel marzo 1955, segna la nascita del Movimento dei non allineati, Nasser incontra il ministro degli esteri cinese Ciu en Lai, anch’egli in procinto di recarsi alla conferenza; gli chiede se i sovietici accetterebbero di dare armi al suo paese. La risposta si fa attendere, ma infine il 30 settembre 1955 è annunciato l’accordo per la consegna di armamenti cecoslovacchi. Così, l’Urss spezza il monopolio occidentale della vendita di armi al Medioriente, ed entra in modo eclatante sulla scena regionale.
Inoltre Nasser lascia ai palestinesi di Gaza maggiore libertà di organizzarsi in gruppi combattenti. Il 26 luglio 1956, il rais nazionalizza la compagnia del canale di Suez. Ne segue l’aggressione tripartita contro l’Egitto da parte di Israele, Francia e Gran bretagna, che si conclude con la conquista del Sinai e della striscia di Gaza. Questa rimane sotto il controllo israeliano fino al marzo 1957.
La resistenza clandestina si organizza. Il bilancio umano dell’occupazione è particolarmente pesante, con molti massacri di civili compiuti dall’«esercito più etico del mondo». Ad esempio, a Khan Younis, decine di persone vengono allineate contro un muro e uccise a mitragliate; altre sono abbattute a colpi di pistola. Il bilancio è fra duecentosettantacinque e cinquecento persone uccise.
Quando Israele, soprattutto su pressione statunitense, libera il Sinai e Gaza, Nasser e il nazionalismo arabo rivoluzionario sono all’apice della popolarità. Nei campi di rifugiati, la nuova generazione palestinese in esilio vi vede la risposta alla sconfitta del 1948-49. Milita in organizzazioni come il Movimento dei nazionalisti arabi, creato da George Abbash, nel partito Baath o nei vari movimenti nasseristi.Per questi giovani, l’unità araba è la strada per la liberazione della Palestina.
Dalla loro esperienza a Gaza, un gruppo di uomini trarrà invece la lezione opposta. Essi hanno affrontato direttamente Israele e misurato come il sostegno arabo, anche da parte di Nasser, sia condizionato – del resto, alcuni di loro conosceranno anche le prigioni egiziane. Per questi militanti, la liberazione della Palestina può avvenire solo a opera degli stessi palestinesi. Nel 1959 si radunano intorno a Yasser Arafat, egli stesso rifugiato a Gaza nel 1948, per fondare Fatah, che è l’acronimo arabo, al contrario, di «Movimento nazionale palestinese». Fra i militanti gazawi della prima ora, destinati a giocare un ruolo centrale negli anni 1970-80, vi sono Salah Khalaf (Abu Iyad), Khalil el Wasir (Abu Jihad), poi diventato il numero due di Fatah e assassinato dagli israeliani a Tunisi nel 1988, e Kamal Adwan, assassinato da un commando israeliano a Beirut nel 1973.
Il loro giornale Falistinouna («La nostra Palestina»), pubblicato a Beirut negli anni fra il 1959 e il 1964, proclama: «Tutto quello che vi chiediamo, è che voi [i regimi arabi] circondiate la Palestina con una cintura difensiva così da circoscrivere la guerra fra noi e i sionisti». E anche: «Tutto quello che vogliamo, è che voi [i regimi arabi] togliate le mani dalla Palestina». In quell’epoca, all’apice dell’influenza di Nasser, ci vuole un certo coraggio per dichiarare simili eresie.
Eppure, già alla metà degli anni 1960, con il fallimento del tentativo di unione fra Egitto e Siria (1958-1961), che rivela l’impotenza dei paesi arabi di fronte al corso degli eventi, il vento comincia a girare. La lotta di liberazione algerina, che si conclude con la vittoria nel 1962, funge da modello.
Nel gennaio 1965, Fatah lancia le prime azioni militari contro Israele e vede affluire militanti da altre organizzazioni, stanche di aspettare un’unità araba sempre più improbabile. La sconfitta del giugno 1967, con la guerra dei sei giorni, consente a Fatah di diventare una forza significativa e di assumere, con l’avallo di Nasser, il controllo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Nel febbraio 1969, Arafat diventa presidente del comitato esecutivo dell’Olp. I palestinesi sono tornati a essere un grande attore nella politica regionale, e Gaza ha contribuito notevolmente a questo rinnovamento.
Che cosa succede al territorio in questo periodo? Occupato da Israele, vede organizzarsi una resistenza militare che raggruppa una quantità di organizzazioni, salvo i Fratelli musulmani che si rifugiano nell’azione sociale. Il primo attacco contro l’esercito di occupazione si verifica l’11 giugno 1967, ovvero all’indomani del cessate il fuoco firmato dall’Egitto e dai paesi arabi con Israele. Con alti e bassi, gli attacchi continuano fino al 1971. Per venirne a capo, occorrerà la brutalità dei carri armati di Sharon e di innumerevoli esecuzioni extragiudiziali. Ma, se la resistenza militare viene schiacciata, le iniziative politiche si moltiplicano, e soprattutto i contatti con la Cisgiordania, molto limitati prima del 1967. Le élites si uniscono all’Olp, che riconoscono come «unico rappresentante del popolo palestinese».
Gli unici a rifiutare sono i Fratelli musulmani. Essi si radicano profondamente grazie alle loro reti sociali e alla tolleranza delle autorità di occupazione, che vedono in loro un contrappeso rispetto al nemico principale, l’Olp. Fondata nel 1973 dallo sceicco Ahmed Yassin, la mujama’ islamiya («centro islamico») viene legalizzata dall’occupante. Ma questo attendismo – l’ora della resistenza non sarebbe ancora arrivata – suscita proteste fra i Fratelli; agli inizi degli anni 1980 una scissione porta alla nascita della Jihad islamica.
Nel dicembre 1987, è a Gaza che scoppia la prima Intifada, la «rivolta delle pietre». Con due conseguenze importanti. Da una parte, i Fratelli imprimono una svolta significativa alla propria strategia creando il Movimento della resistenza islamica (Hamas), che partecipa all’Intifada ma rifiuta di formare un fronte unico con le altre organizzazioni. D’altra parte, l’Olp utilizza la rivolta per rafforzare la propria credibilità e negoziare gli accordi di Oslo, guidati da Arafat e dal primo ministro israeliano Itzhak Rabin il 13 settembre 1993 a Washington. Il 1° luglio 1994, Arafat apre a Gaza la sede dell’Autorità nazionale palestinese.
Il seguito è noto: fallimento degli accordi; sviluppo della colonizzazione; seconda Intifada (a partire dal settembre 2000); vittoria di Hamas alle prime elezioni democratiche tenutesi in Palestina nel 2006; rifiuto dei paesi occidentali di riconoscere il nuovo governo, e alleanza fra una fazione di Fatah e Stati uniti per porvi fine; arrivo al potere di Hamas a Gaza nel 2007; blocco israeliano imposto da allora a un milione e mezzo di abitanti.
La striscia di Gaza, malgrado l’evacuazione dell’esercito israeliano nel 2005 – senza alcun coordinamento con l’Autorità nazionale palestinese –, continua a essere occupata. Tutti i suoi accessi dal mare, dalla terra e dal cielo continuano a dipendere da Israele, che vieta ai palestinesi importanti porzioni del territorio (il 30% delle terre agricole) e il mare al di là delle sei miglia nautiche (ridotte a tre a partire dall’inizio dell’operazione militare in luglio). Gli israeliani continuano a gestire lo stato civile. Il blocco che mantengono dal 2007 soffoca la popolazione, malgrado le condanne unanimi – unicamente verbali, è vero – da parte della «comunità internazionale», compresi gli Stati uniti.
Dopo il suo ritiro, Israele ha condotto tre operazioni di grande portata contro i territori: nel dicembre 2008-gennaio 2009; nel novembre 2012; infine nel luglio 2014. Finché il blocco non sarà tolto, finché i palestinesi non avranno uno Stato indipendente, ogni nuovo cessate il fuoco sarà solo una tregua. Il generale de Gaulle lo aveva predetto, in una celebre conferenza stampa tenuta il 27 novembre 1967 dopo la guerra arabo-israeliana: «Non ci può essere occupazione senza oppressione, repressione, espulsioni»; le quali provocano «la resistenza [che Israele]chiama terrorismo».
(Traduzione di Marinella Correggia)
© Le Monde diplomatique/ilmanifesto
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