Due libri usciti di recente, diversi per genere e approccio analitico, forniscono sguardi diversi sul Sud Italia, mettendosi in relazione con fenomeni globali e dinamiche universali senza tralasciarne specificità storiche e caratteristiche peculiari. Insieme, forniscono una prospettiva non banale: meritano di essere raccontati uno accanto all’altro, come si fa nelle libere associazioni di una jam session.

Ne I cannibali dei Borbone (Laterza, pp. 178, euro 20) lo storico Luca Addante ricostruisce i giorni che seguirono l’abbattimento della Repubblica Napoletana del 1799. Furono veri e propri moti di popolo aizzati da borboni e sanfedisti. Culminarono con la cattura, il linciaggio ed episodi di vero e proprio cannibalismo ai danni di personaggi ritenuti vicini ai giacobini. Ricostruendo e documentando la storia, Addante si cimenta con il rimosso dell’antropofagia in una delle città più colte, avanzate e colte d’Europa. È così che la pratica del cannibalismo, poi considerata il discrimine tra popolazioni civili e «selvaggi», riappare su di un crinale storico fatto di rivoluzioni e controrivoluzioni.

ADDANTE SI DISCOSTA solo per un attimo dal ruolo di studioso rigoroso e algido per confessare il turbamento e l’ossessione rappresentata da questo episodio e dall’angoscioso dilemma di un popolo che sposa le posizioni più reazionarie. Pur di spazzare via il pungolo della storia, la plebe arriva a profanare corpi e mettere in scena, quasi istintivamente, riti primitivi che si consideravano dimenticati o appartenenti a terre lontane. Tutto ciò dal punto di vista politico è perturbante: richiama in gioco nella forma più tragica e sanguinolenta il rapporto tra avanguardie politico-culturali e soggetti sociali, tra ribellione e reazione.

Quasi due secoli dopo, gli eredi di quel popolo che mangiò letteralmente i rivoluzionari annunciarono di voler ingurgitare i padroni. «Gastronomia operaia/ cannibalizzazione/ forchetta, coltello/ mangiamoci il padrone», recitava uno slogan del Settantasette. Un nuovo menù (questa volta solo metaforico) che è tutto un programma politico frutto di quel ciclo di lotte.

Di questa alchimia parla il decimo volume della serie Gli Autonomi (DeriveApprodi, pp. 320, euro 20), primo episodio di un trittico a molte voci curato da Antonio Bove e Francesco Festa e dedicato all’autonomia meridionale.
Gli autonomi, sostiene Franco Piperno dialogando nel libro con Claudio Dionesalvi, furono comunisti che sperimentarono la loro prassi al di fuori delle maglie del lavoro salariato, oltre gli schemi dei partiti, al di là dell’orizzonte dello stato.

SE È DAVVERO COSÌ, gli autonomi del sud vissero questa proiezione con forza ancora maggiore. Si trovarono ad agire in territori assorbiti da queste tendenze, finirono doppiamente invischiati in queste condizioni premonitrici. Giustamente il testo sottolinea che a sud ci furono gli operai veri e propri, quelli degli insediamenti meridionali e della pianificazione dello sviluppo: alle acciaierie di Taranto e Bagnoli, al petrolchimico a Gela, dell’Alfasud di Pomigliano, alla Olivetti di Pozzuoli e alla Fiat di Poggioreale. Ma bisogna riconoscere i territori diversi e i contesti sociali frammentati dei tanti paesaggi del Sud Italia, che viene fuori dal racconto di Lanfranco Caminiti e della sua corsa a campo aperto alla ricerca della rivoluzione impossibile.

È altrettanto impossibile, tuttavia, raffigurare Nord e Sud come entità a sé stanti: lo osservarono da diverse prospettive Luciano Ferrari Bravo in Stato e sottosviluppo e Nanni Arrighi nel suo periodo di ricerca calabrese. I territori sono profondamente intrecciati, nelle dinamiche produttive e in quelle conflittuali. La voce di Alfonso Natella, il giovane operaio massa a Mirafiori raccontato da Nanni Balestrini in Vogliamo tutto, testimonia che la classe operaia meridionale fu protagonista dell’autunno caldo. Che viene così definito: «l’ultima rivolta contro la Cispadania da quando fu inventato il Mezzogiorno». E allora ecco l’«autonomia come comportamento e non come organizzazione», secondo la definizione nient’affatto consolatoria di uno degli intervistati.

«LA STORIA ‘MAGGIORE’ dell’autonomia, di tutta l’autonomia, ha a che fare con quel che accade nel Mezzogiorno e ne è spesso anticipata», osserva Giso Amendola. Il che, si badi, non è necessariamente una fortuna. Essersi trovati a giocare prima del tempo su questo terreno ancora incerto e ambivalente ha creato le condizioni della sconfitta politica dell’autonomia operaia. Ma allo stesso tempo ha seminato le condizioni della sua inesorabile vittoria mitopoietica: l’aver pervaso il pensiero radicale globale assieme alla letteratura, alle diverse forme di espressione artistica e alla creazione d’immaginario.