In sala non arriverà, potrete vederlo da domani su Mubi – dopo la proiezione nel programma del festival palermitano Sicilia Queer, in corso questi giorni. Eppure Gasoline Rainbow è stato uno dei titoli più entusiasmanti nella scorsa Mostra del cinema di Venezia, uno dei pochi fra quelli americani in cui il cinema come invenzione era ancora presente sfuggendo al fracasso delle macchine per star e tappeto rosso in stile Netflix e simili (come dimenticare il terribile Maestro?) che il Festival veneziano privilegia ormai sempre più in vista di Oscar, folle ecc e che garantiscono una solida stabilità – pensiamo a un altro titolo geniale, Hit Man di Richard Linklater che arriverà tra poco nelle nostre sale presentato però fuori concorso. Fa anche riflettere che nessun distributore italiano lo abbia voluto portare in sala magari per un un’uscita evento perché il romanzo di formazione dei due fratelli Ross, Bill e Turner, è un viaggio attraverso l’America (pensato dagli autori durante il lockdown) pieno di energia, vitalità, desiderio, che sono quelli dei suoi giovanissimi protagonisti in cerca di un orizzonte da scoprire per le loro vite, di una ribellione a quella provincia dove vivono e alle famiglie, o solo più semplicemente della possibilità di esplorare lo stare al mondo. Incontri, delusioni tradimenti, amicizie, amori: lungo le migliaia di chilometri che da Wiley, provincia dell’Oregon li porta alla Costa del Pacifico il loro on the road è il racconto della continua sorpresa di un paesaggio americano visto per la prima volta, di un mito della frontiera riscritto con la sensibilità del presente.

I TURNER, protagonisti oggi del cinema indipendente americano con film come Western o Bloody Nose Empty Pocket, sono narratori di luoghi e di persone sul confine tra documentario e finzione, e anche qui si prendono la libertà di improvvisare, di cercare quel bigger than life che spiazza qualsiasi attesa. «Ci piace scoprire le cose mentre le realizziamo e non seguire un piano dove è già tutto deciso» ci avevano raccontato a Venezia. Una visione che oggi in tempi di format pure autoriali appare quasi eccentrica, e difatti loro che fanno quasi tutto da soli faticano molto a mettere insieme il budget dei loro film – «Un inferno» definiscono la ricerca di finanziamenti. Anche stavolta hanno mantenuto la loro cifra, pure se il punto di partenza era un progetto che doveva essere più definito per non perdersi nella vastità spaziale, lavorando con persone molto giovani, non attori professionisti molti dei quali conosciuti durante i sopralluoghi – di cui i personaggi mantengono il nome. Makai, Micah, Nathaly, Nichole e Tony si sono appena diplomati e partono insieme su un camper per la loro grande avventura: arrivare dall’altro lato dell’America dove non sono mai stati «perché qualsiasi posto è meglio di Wiley e bisogna essere abbastanza coraggiosi per scoprilo». Dunque «Fanculo e via» con la velocità e la spensieratezza di buttarsi senza rete, delle canzoni cantate assieme, dell’aria sul viso dal finestrino, dei colori fra capelli e dita, di discussioni e improvvise malinconie.

CI SARANNO molte prove da affrontare lungo la strada, compresa quella di perdere il camper; di risvegli un po’ brutti, di amici che non erano ciò che mostravano di essere. Scopriranno il deserto caldissimo, le zone industriali, le città, con incontri sempre nuovi di persone spesso ai margini, e la scoperta che i sentieri delle loro vite dipendono da loro. Non è tanto la «storia» che mettono al centro i Ross, ma la texture della vita, ciò che pulsa, che accade, le variazioni, i passaggi e le improvvise epifanie di dolcezza e di malinconia, di gioia e di spaesamento. Uno sguardo che fa funzionare alchemicamente il film, ridefinendo i territori che attraversa, letterari, poetici, fantasticati. Questo loro «Mago di Oz punk rock» – come amano definirlo – si immerge in un paesaggio che è quello dell’immaginario e ne scompiglia le trame in una lente imprevista, selvaggia, irruenta, come la generazione Z di cui tratteggia il ritratto, che prova a cercare un possibile futuro e una propria «frontiera» che non sarà mai più quella di un tempo.