Cultura

Gabriela Wiener, decolonizzare lo sguardo lungo i secoli

Gabriela Wiener, decolonizzare lo sguardo lungo i secoliGabriela Wiener

NARRAZIONI A proposito di «Sanguemisto», della giornalista e autrice peruviana per La Nuova Frontiera

Pubblicato più di un anno faEdizione del 21 giugno 2023

Sanguemisto della giornalista e scrittrice peruviana Gabriela Wiener è un romanzo che parla di ferite. Aperte, bruciano ancora a partire dal titolo per La Nuova Frontiera (pp. 192, euro 17.90, traduzione di Elisa Tramontin) dove si evocano gli spettri del nostro infame passato coloniale, e ancora di più quello originale, l’intraducibile Huaco retrato, metafora che attraversa tutto il libro e con cui ci si riferisce a qualsiasi oggetto di ceramica ritrovato nei templi sacri andini, che in lingua quechua sono denominati per l’appunto huaca. Un huaco retrato è una sorta di fototessera preispanica, «talmente realistico che sporgersi a guardarlo è per molti di noi come guardarsi nello specchio rotto dei secoli»; esattamente ciò che accade alla protagonista del libro, Gabriela, che, nella sala di un museo etnografico parigino si riconosce in uno di quei 4500 huacos esibiti all’Esposizione Universale di Parigi e sottratti a metà dell’Ottocento da Charles Wiener, suo trisavolo, esploratore austriaco.

IN QUESTO LUOGO, dove «gli oggetti e i corpi esotizzati vengono cannibalizzati da un’Europa che ha bisogno di narrazioni fondative della propria stessa identità», e che l’antropologa Giulia Grechi non esita a definire un doppio «ripulito» dello spazio coloniale, ma non per questo meno pericoloso (Decolonizzare il museo, Mimesis), Gabriela si sente a disagio e desidererebbe rivendicare come propria l’intera collezione. Come decolonizzare lo sguardo? Come liberarsi «dalla morsa del pensiero suprematista bianco»? – per usare le parole di bell hooks. Gabriela s’imbatte in una teca vuota, che avrebbe dovuto contenere la mummia di un bambino originario della città in cui lei stessa è nata, e che invece le restituisce il proprio riflesso dal profilo incaico: «ombra intrappolata nel vetro». «Un museo non è un cimitero», pensa allora, «sebbene gli assomigli molto». La teca vuota diventa uno spazio bianco da riscrivere.

Wiener è l’unica che senza eufemismi chiama l’esploratore un huaquero, ovvero «un tombarolo di portata internazionale»; eppure non riesce a fare a meno di utilizzare quel suo cognome, che ha il potere di sbiancare («blanquea») ciò che in Spagna dove lei è emigrata la rende «india», «sudaca», «sanguemista»: «c’è qualcosa in questa mescolanza perversa di huaquero e huaco che mi scorre nelle vene, qualcosa che mi fa dissociare». Come ha osservato Elisa Tramontin, tutto il libro si muove intorno a questa contraddizione. Se la visita al museo funge da premessa teorica, è però la morte del padre il vero motore del romanzo. Alla ferita coloniale si aggiunge infatti una ferita intima, che costringe Gabriela a confrontarsi con le proprie origini, ad accorgersi di quanto sia poco decostruita nell’amore e sia altrettanto poco decolonizzata nel desiderio.

IL LUTTO rimette in discussione tutte le scelte compiute, getta una nuova luce sulle relazioni, da quella con la madre a quella poliamorosa. E mentre Gabriela cerca di demolire la figura del patriarca, rovistando nei suoi cassetti e passando giornate a leggere la sua posta privata – per poi accorgersi di non essere così tanto diversa da lui – scopre l’esistenza di una benda che il padre portava sull’occhio destro, fingendo di avere una malattia oculare che gli consentiva di giustificare le sue assenze con l’amante e condurre così una doppia vita. Quella benda, «quel movimento di mettersi e togliersi» diventa una metafora della scrittura, intesa come la necessità di far funzionare lo stratagemma, «senza innocenza, con la sensazione a volte persino sporca di aver messo la vita nella letteratura o, peggio, di aver messo la letteratura nella vita».

Per la scrittrice narrare significa esplorare, sovvertire, dissotterrare e riparare; il contrario del saccheggiare del suo avo. E per poter raccontare la sua soggettività marginale, (dissociata e fin contraddittoria), anche la forma del romanzo si fa ibrida. L’unica scrittura possibile è quella a partire dal corpo, come ci ha detto durante un incontro organizzato da Aprendo la porta (progetto trasnfemminista curato da Valentina Greco); perché non tutte hanno il privilegio di avere una stanza tutta per sé, ma, come ha scritto Gloria E. Anzaldúa in Luce nell’oscurità (Meltemi), «cerchiamo di essere il balsamo della ferita».

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