Cultura

Gabriela Ponce, se il corpo è aggroviglio di trasformazione

Gabriela Ponce, se il corpo è aggroviglio di trasformazioneGabriela Ponce, foto di Florencia Luna

NARRATIVA A proposito di «Sanguigna», il romanzo della scrittrice ecuadoriana edito da Cancellada e da oggi in libreria. Come Alejandra Pizarnik e Luisa Valenzuela, o Armonia Somers, Monica Ojeda e Cristina Rivera Garza, l’autrice stabilisce un legame incarnato con il linguaggio

Pubblicato circa un anno faEdizione del 15 settembre 2023

Magari potessi vivere solamente in estasi, facendo con il mio corpo il corpo della poesia». È questo verso di Alejandra Pizarnik (tratto da Il desiderio della parola, nella raccolta L’inferno musicale) che viene subito in mente leggendo Sanguigna (pp. 208, euro 19.50), l’unico romanzo di Gabriela Ponce, scrittrice, drammaturga e regista nata in Ecuador, a Quito, nel 1977 e oggi proposta per la prima volta in italiano da Cencellada, una nuova casa editrice le cui scelte vanno componendo un catalogo degno di attenzione.
Come Pizarnik e la sua conterranea Luisa Valenzuela, come l’uruguyana Armonia Somers e la messicana Cristina Rivera Garza, o come Monica Ojeda, anch’essa ecuadoriana, Ponce stabilisce infatti con spericolata bravura un’evidente continuità tra corpo e linguaggio: è il corpo che dà forma alla parola, si insedia nella scrittura e la definisce, proponendosi come spazio dell’esperienza, del desiderio e, inevitabilmente, del dolore.

DELLA PROTAGONISTA, che si avvicina ai quarant’anni, ha un lavoro qualsiasi e un matrimonio fallito alle spalle, non sapremo mai il nome (pochissimi, qui, sono i personaggi che ne hanno uno, e si tratta quasi sempre di figure secondarie o di comparse), ma conosceremo nei minimi dettagli gli incontri del suo corpo con quelli di uomini diversi, tra i quali emerge il misterioso, pallido «uomo della grotta» la cui casa somiglia a un utero oscuro e pulsante, e che senza saperlo la renderà madre. Tutto qui: un uomo e una donna si lasciano, la stessa donna e un altro uomo si incontrano e si perdono, un bambino nasce e viene «regalato» a una coppia di sconosciuti disposti ad amarlo.
Da questa trama esile, che potrebbe appartenere a una delle telenovelas messicane di cui la protagonista bambina era spettatrice appassionata, e che insieme alle canzoni sono state la sua educazione sentimentale (un’orgogliosa rivendicazione del kitsch televisivo e musicale degli anni ’90, presente anche nei racconti di Ponce e nella sua audace drammaturgia), nasce però un testo densissimo, dal linguaggio vertiginoso e dal ritmo frenetico, ricco di potenti dettagli visuali e di immagini oniriche, che la traduttrice Sara Papini ha reso in italiano con notevole abilità.

La forma scelta da Ponce è un flusso di coscienza fitto di iterazioni e spezzato da lunghi e ipnotici elenchi (di oggetti, di avvenimenti, di sensazioni) che sfiorano la poesia e riassumono memorie, sostituito negli ultimi capitoli da un diario vero e proprio, mentre la voce narrante passa da un lutto che non riesce a elaborare (la conclusione di un lungo amore, la profonda ferita della separazione), ai tumultuosi incontri sessuali che la portano fino ai giorni quasi immobili della gravidanza. E mentre il corpo, abitato e attraversato da un essere nuovo, si prepara a lasciarlo andare, la scelta diaristica interviene a rappresentare, se non un bisogno di ordine, la scoperta del limite e l’inizio di una diversa consapevolezza.

IL SANGUE MESTRUALE, che inonda con esplicita crudezza la prima parte del romanzo, nella seconda lascia il posto al latte che riempie i seni e che, anche se non c’è più nessuno a succhiarli, non vuol saperne di cedere ai farmaci e andarsene. Si coniugano così il rosso e il bianco, l’accoppiamento di colore che tanto aveva colpito l’immaginazione infantile della protagonista: corpo che sanguina e corpo che nutre.
Un corpo di donna che riconosce ed esplora sé stessa, che si espone senza timore e occupa con fermezza i molti spazi che lo circondano (una casa di terra e muschio, una pista da pattinaggio, un giardino aggrovigliato e mostruoso, le strade della città notturna, un fiume dall’acqua gelida, il cerchio di un abbraccio, una stanza sul mare), alla perpetua ricerca delle parole che gli consentiranno di narrarsi, muovendosi all’interno di un linguaggio che da erotico e convulso si fa lirico e poi ironico e poi desolato, sotto il segno costante dell’abbandono e della perdita insopportabile degli esseri amati, ma anche del piacere sempre rinnovato, senza censure né vergogna.

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