Nella società tardo-vittoriana – attraversata dalle lotte per i diritti della working-class industriale, dalle richieste dell’emancipazione femminile, dalle agitazioni indipendentiste dell’Irlanda, ma pur sempre guidata fermamente da un establishment impegnato a difendere la supremazia imperiale britannica nel mondo – il teatro esibisce un arco sorprendente di soluzioni espressive: dal music hall più popolare all’operetta elegante di Gilbert e Sullivan, dalla rivalutazione delle qualità drammaturgiche dell’opera shakespeariana, recitata dalla rinnovata Royal Shakespeare Company, al teatro squisitamente realista e borghese di Edgar Wing Pinero, fino all’indagine ironica sulla contemporaneità condotta negli anni ’90 dalle commedie di Oscar Wilde e di George Bernard Shaw, i due mattatori della scena teatrale londinese, anche se la carriera del primo si interromperà bruscamente nel 1895.

Su tutti – ma soprattutto su Shaw – incombe la figura «scandalosa» del norvegese Ibsen, con i suoi attacchi diretti alla rispettabilità borghese, che Shaw riprende direttamente, ad esempio, nella fortunata pièce Candida, una versione più blanda di Casa di bambola.

Nel 1891 Shaw aveva dedicato all’illustre collega l’ampio saggio La quintessenza dell’Ibsenismo. Assai più corrosiva dovette risultare una delle «Commedie sgradevoli», La professione della signora Warren, scritta nel 1894, ma messa in scena solo nel 1902, il cui argomento «proibito» non è tanto quello della prostituzione in sé, ma il fatto che i suoi proventi vadano a nutrire gli scambi economici di una middle class ipocrita e bigotta.

I rapporti di Shaw con il teatro della sua epoca – e, ancora di più, quelli con la cultura inglese ottocentesca, che spaziano da Carlyle a Dickens, da Samuel Butler a William Morris – sono ricostruiti con precisione ed erudizione nella densa Introduzione di Francesco Marroni al Teatro di George Bernard Shaw, un volumone (Bompiani, «Classici della Letteratura Europea» pp. 3.313, € 70,00) con testo a fronte e un ricchissimo apparato di introduzioni a  ognuna delle tredici opere da parte di studiosi –Richard Ambrosini, Raffaella Antinucci, Benedetta Bini, Elisa Bizzotto, Foprenzo Fantaccini, Francesco Marroni, Loredana Salis, Enrico Terrinoni – che sono anche gli autori delle varie traduzioni, tutte di qualità elevata, sebbene talvolta decisamente letterarie.

Invece, nella più difficile, ovvero la versione di Pigmalione, il linguaggio gergale di Liza e, ancor più, quello del padre Doolittle, non produce alcun esito innovativo.

Qualche obiezione potrebbe inoltre essere mossa all’uso del testo inglese relativo a ogni traduzione, dal momento che la sua presenza rende ancora più massiccio e poco maneggevole un volume che ha il merito di recuperare un autore pressoché dimenticato nelle messinscene contemporanee e nel quadro editoriale italiano, a poco più di settant’anni dalla sua morte, avvenuta nel 1950.

Di fatto, Shaw ha attraversato molti generi letterari, partendo dal romanzo (con i tentativi giovanili nati, come nota Marroni, sotto l’ombra ingombrante di Dickens) e sviluppando le sue doti di saggista (come politico riformista, ed esperto di teatro, musica, fonetica), per approdare a una lunghissima stagione teatrale che nel Teatro di Bompiani si articola, coprendo tutta la fase più ricca e innovativa, da La casa dei vedovi a Santa Giovanna, dal 1892  al 1923.

Un lungo percorso intellettuale, in cui non mancarono incidenti e infortuni (le iniziali simpatie per Hitler) che accomuna Shaw al contemporaneo H.G. Wells, con cui non mancò di litigare all’inizio del Novecento, quando i due primeggiavano all’interno della Società Fabiana, di impronta social-democratica, una delle incubatrici del Labour Party. Il prolifico Wells avrebbe scelto il romanzo come suo principale campo d’azione, forse anche perché la materia narrativa gli permetteva sostanziosi agganci autobiografici, mentre la forma del teatro riusciva a tenere più a bada l’esibizionismo missionario di Shaw.

Interessato agli eventi storici, di cui mette in luce l’attualità, il drammaturgo irlandese è legato alla figura del superuomo, il grande interprete della storia, non in chiave nietzschiana, ma piuttosto come una derivazione del pensiero di Carlyle. E tuttavia, da Giulio Cesare a Giovanna D’Arco, fino a Napoleone, «l’uomo del destino», i suoi eroi scendono dal piedistallo e entrano a fare parte anch’essi di una visione comica della vita.

Sebbene i due si ignorassero, qualcosa accomuna Shaw e Brecht, nel quale c’è tuttavia una dimensione epica e un’attenzione al canto, assenti nell’opera del drammaturgo irlandese. Il quale era capace di sciorinare sul palcoscenico linguaggi e personaggi che non soltanto esprimono una polifonia dickensiana, ma animano in più il gioco teatrale consentendo agli attori e alle attrici di muoversi al di là delle sovrabbondanti «note di regia» che Shaw aggiungeva al testo stampato delle sue opere, assieme a prefazioni e didascalie.

Giustamente Marroni sottolinea in Shaw una vena anti-shakespeariana deliberatamente polemica: Shaw introduce infatti nel suo teatro uno «spirito militante», rivendicando la «tensione creativa dell’artista-filosofo» e mettendo sfavorevolmente a confronto il relativismo e lo scetticismo shakespeariano con lo slancio etico del predicatore protestante secentesco John Bunyan, l’autore del Viaggio del pellegrino.

Shaw resta comunque un profondo conoscitore della macchina scenica, ben consapevole del ruolo fondamentale delle scelte attoriali, e rispettoso delle diverse  messinscene, dettate di volta in volta dagli spazi teatrali nella loro collocazione storico-culturale. L’assenza dell’elenco dei nomi dei personaggi all’inizio di ogni opera potrebbe sconcertare; ma bisogna sapere che fu una scelta dello stesso commediografo, che in un certo senso conferma come nel suo teatro tutto si risolva nell’azione scenica, perché è sul palco che i personaggi acquistano corpo, voce, dinamismo. È sempre sulla scena, infatti, che di Shaw va messa alla prova la modernità.