Una grande onda composta da centinaia di pezzetti di carta (ripiegati su loro stessi e mai tagliati con le forbici, ma rigorosamente «fatti a mano») come fossero spinose protuberanze di un animale preistorico. È questa la strabiliante scultura di Fuyuki Yamakawa, opera site specific per il Pac di Milano e ospitata nell’ambito della mostra Japan. Body Perform Live (fino al 12 febbraio 2023, catalogo Silvana editoriale), dedicata alle ultime ricerche dell’arte contemporanea giapponese, con un ancoraggio storico essenziale agli esponenti del gruppo Gutai e Mono Ha, per consegnare le eredità del passato alle giovani generazioni e dare continuità, in una scrittura a volo d’uccello, ai linguaggi espressivi del corpo.

Yamakawa, di quel corpo qui indagato attraverso le scelte operate dalla curatrice Shihoko Iida e Diego Sileo, non espone nulla se non l’invisibilità della sua stessa voce, che riesce a imitare la natura, trasformandosi anche in un dispositivo per campionature elettroniche. È una performer, improvvisa suoni e compone melodie con i battiti dell’ambiente e del cuore, così come con il brusìo della città. Lo fa entrando in sintonia con lo spazio: al Pac ha materializzato la sua voce, l’onda sonora in una forma sinuosa inseguendo il movimento del suo canto.

La rassegna milanese prova a rintracciare alcune linee di orientamento nell’arte performativa nipponica e ha alle sue spalle una lunga storia. In mezzo, c’è stata la paralisi della pandemia che, però, come ha spiegato la curatrice Shihoko Iida, ha permesso una riflessione ponderata sul tema geopolitico: nonostante la globalizzazione, nessuno poteva più superare i confini nazionali e il Giappone ha rivissuto quella chiusura in sé stesso che aveva scardinato per la prima volta alla metà dell’Ottocento. «In questo contesto, le opere degli artisti hanno rappresentato un eccellente strumento per abbattere le frontiere». Anche le differenze generazionali, creando una rete invisibile fra movimenti del dopoguerra come Gutai e la sfida artistica lanciata nel terzo millennio, in quei decenni difficili per il paese che ha vissuto attentati, terremoti, l’incidente nucleare e la ristagnazione economica. Così, al Pac, snodandosi fra le varie sale e al secondo piano «due mondi s’incontrano» (nella Project Room, anche l’omaggio al fumettista Igort e al «suo» particolare Giappone).

Chiharu Shiota, «After the Dream», 2011, installazione al Pac di Milano

Vediamo Yoko Ono nella celebre azione Cut piece (1964) in cui il pubblico taglia il suo vestito riducendolo in brandelli mentre lei se ne sta immobile e «immolata». E c’è poi Meiro Koizumi che con le sue azioni teatrali indaga il concetto di nazionalismo, i circuiti securitari, il controllo capillare del potere sulle vite individuali. Con l’opera video We Mourn the Dead of the Future (2019)interroga venti giovani (che prestano i loro corpi alla «scena»)sul concetto del sacrificio di sé rispetto alla collettività. «Il Giappone – dice – ha vissuto molti decenni di pace dopo l’orrore del secondo conflitto mondiale -. Il discorso sulla guerra apparteneva a una sfera quasi astratta, ma negli ultimi tempi è tornato a essere potentemente concreto, un trauma che ha ritrovato la sua visibilità».

Cut piece di Yoko Ono

Saburo Muraoka (1928 -2013 Osaka) è un artista raro da vedere in Europa. In mostra c’è anche la sua installazione Body Temperature (realizzata nel 2010, è esposta per la prima volta dopo la sua scomparsa) in cui trasforma un’esperienza fisica – la misurazione della temperatura corporea, appunto – in un simulacro nostalgico, conservando così una rarefatta traccia della vita: il tubo di rame della sua scultura rimanda i 36,7 gradi rilevati il 16 luglio del 2010.

Nell’assenza del corpo, lavora invece Chiharu Shiota (classe 1972, rappresentò il Giappone alla Biennale di Venezia del 2015) con la struggente malinconia di vestiti-feticci ingabbiati in un intricato sistema di fili. Sono intrappolati dentro un bozzolo, cristallizzando il ricordo e alimentando la memoria perduta.
Un corpo diverso, impudico, «alieno» è quello che ripiomba sul palcoscenico dell’arte con le fotografie di Mari Katayama. L’artista (che a nove anni ha subito l’amputazione delle gambe e ha una malformazione a una mano) raccoglie oggetti sentimentali, reperti del passato, crea a sua volta piccole sculture con elementi naturali e costella il suo «teatro di posa» con queste disseminazioni di sé per comporre autoritratti imperfetti e insieme fiabeschi. «La bellezza? Si annida in tutto ciò che è vivente».