Giacomo Balla, “Abito futurista”, 1918-’33

Per cogliere il senso e anche l’aspetto sorprendente di questa mostra è utile partire dall’ultima sala nella sede di Palazzo Morando. Qui è stato rimontato il laboratorio creativo di Federico Forquet, stilista di origini napoletane, formatosi alla scuola di Balenciaga, chiamato ora a disegnare una nuova collezione di tessuti per lo storico marchio londinese Liberty. Sui tavoli e ai muri sono raccolti, con disordine creativo, disegni di tessuti, schizzi, campionari, tutti caratterizzati da una felicità cromatica e da un dinamismo che trova una rispondenza nel titolo della collezione, Futurliberty.
Titolo audace, perché per chi non conosce la parabola della celebre azienda suona come un ossimoro: «liberty» ha un’accezione di eleganza retrospettiva, che poco ha a che fare con la frenetica proiezione in avanti propria del futurismo. Tuttavia, se si guarda alla storia e si compulsano gli archivi, si scopre che le cose non sono affatto in contraddizione, come precisa nell’introduzione al catalogo double face edito da Electa, la curatrice Ester Coen: «Studiando gli archivi è subito emerso che nei momenti cruciali della storia, Liberty è entrata nella vita, ha cercato di cogliere il battito di quanto accadeva nel mondo, dando ascolto alle emozioni della gente». Così si spiega come lo stesso decorativismo floreale dominante nelle origini sia stato rimpiazzato da una produzione che risente fortemente di un’apertura all’estetica delle avanguardie.
Artefice di questo cambio di marcia a metà anni sessanta è stato un personaggio carismatico della cui vita si sa molto poco: Bernard Nevill. Negli anni della Swinging London e della controcultura rivoluzionaria Nevill aveva spinto con successo in direzione di un rinnovamento al passo con la musica, il cinema e la moda che stavano rivoluzionando gusti e attitudini a livello sociale. Nel 1965 Nevill aveva creato una collezione ribattezzata Jazz, che si ispirava, in un mix eclettico, a cubismo, vorticismo e art déco. Con motivi geometrici e colori brillanti veniva completamente rivisitata, ma non cancellata, la matrice dello stile floreale. In una vetrina di questa sezione è esposta una copia del «Sunday Times Magazine» del 1967, con un servizio dedicato al successo di Jazz: il titolo, «Blast», richiama il debito di Nevill nei confronti del movimento inglese dei vorticisti, che negli anni dieci avevano chiamato così la loro rivista. «Blast», cioè «raffica», a testimonianza della posizione accanitamente interventista, in linea con i loro colleghi futuristi.
Nevill non sarebbe rimasto a lungo in Liberty, ma aveva fatto in tempo, nel 1972, prima di lasciare la casa londinese per fondare un’attività propria, a conoscere una vera consacrazione: sulla copertina del suo nuovo album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars David Bowie appariva con un abito il cui tessuto era stato disegnato da Nevill. Era il modello Corbusier, con un disegno a motivo meccanico ispirato agli edifici del grande architetto. Scrive Ester Coen: «La mutazione è immediata. I lunghi capelli tagliati, reciso il legame con gli anni sessanta, il passaggio verso i settanta è fulmineo. Così come l’estetica “per metà futuristica e per metà chic da negozio dell’usato” curata dalla moglie di Bowie, Angie, e dallo stilista Freddie Burretti. Il tessuto per l’abito di copertina rimane lo specchio di un mondo in rapido mutamento».
La mostra Futurliberty Avanguardia e stile (fino al 3 settembre) si articola in due sedi: a Palazzo Morando, coerentemente con la natura del museo, vengono documentati gli scambi tra arti visive e mondo della moda e della decorazione delle tre principali fasi che segnano la storia di Liberty, a partire da quella iniziale sotto l’influsso di William Morris, per passare a Bernard Nevill e approdare al Futurliberty di Federico Forquet. Invece al Museo del Novecento va in scena il reciproco scambio di dare e avere tra Milano e Londra: Marinetti aveva frequentato la capitale inglese dal 1910, e nel 1914, insieme all’artista inglese Christopher Nevinson, aveva pubblicato Vital English Art, un manifesto per introdurre il futurismo oltre Manica. «Voglio guarire l’arte inglese dalla più grande delle malattie: il passatismo» peccato che il suo atteggiamento strabordante avesse poi provocato la presa di distanze di Nevinson, che quello stesso anno pubblicava su «Blast» il Manifesto vorticista sottoscritto tra gli altri anche da Pound.
La mostra è così l’occasione per conoscere artisti come lo stesso Nevinson, presente con una serie di disegni, dal segno forte com’è forte l’intento propagandistico; David Bomberg, il più strutturato del gruppo; Doroty Shakespear, la moglie di Pound. Nel rapporto di dare e avere tra Milano e Londra, la città lombarda preleva a piene mani soluzioni dallo stile liberty, a partire dalla sua consacrazione avvenuta in occasione dell’Esposizione universale del 1906. Architetti, artigiani, ingegneri sposano un gusto ornamentale che ha lasciato segni ancora ben visibili in decine di edifici costruiti negli allora nuovi quartieri borghesi. Ma ha lasciato il segno anche nella toponomastica cittadina, visto che esiste piazza Liberty, oggi in realtà ridefinita dall’estetica radicalmente diversa del grande negozio della Apple.
Tutto era iniziato nel 1875, quando Arthur Lasenby Liberty aveva inaugurato il suo negozio al 218 di Regent Street. Era una sorta di bazaar orientale che raccoglieva prodotti esotici alla moda, amati dalla società intellettuale e dal mondo dell’arte del tempo: Oscar Wilde e Dante Gabriel Rossetti erano tra i frequentatori più assidui. A partire dal 1853, con l’apertura forzata del mercato giapponese ad opera degli americani, l’Europa era stata conquistata dagli oggetti e dai tessuto che arrivavano dal Sol Levante. Ben presto però Liberty si era messo a produrre tessuti in proprio, che risentivano di quel gusto decorativo, usando metodi di tintura naturale in opposizione all’aggressivo modello di produzione industriale. La cultura di fondo era quella Arts and Crafts rilanciata da William Morris a partire dal 1861, fondando la Morris, Marshall, Faulkner & Co.: veniva ripostato al centro il valore dell’approccio artigianale, garanzia della qualità della lavorazione e terreno fertile per un continuo raffinamento estetico. «L’artigianato si fa arte – annota Ester Coen –, entra nelle case borghesi e nell’immaginario della gente. La vita si apre alla fantasia, agli elementi della natura semplificati da linee ripetute e seriali».
Su questo sottofondo originario, nel percorso della mostra irrompono i futuristi, con la loro vocazione sperimentatrice che trova spesso e volentieri sbocco nelle arti applicate. La curatrice ha giustamente puntato su Giacomo Balla, con una selezione di opere che rendono ragione dell’influsso avuto sui due momenti di svolta che hanno segnato la storia di Liberty. È il Balla innovatore nel design, come nel caso della bellissima Porta dello studiolo rosso (1929), o che si inventa stilista con i suoi Abiti futuristi, ma anche con bozzetti per cravatte o per maglioni da tennis. Scrive anche un Manifesto futurista per il vestito da uomo, e un altro per Il vestito antineutrale. Le infinite soluzioni messe a punto con i suoi disegni geometrici sono palesemente prodromiche dell’ultimo atto della mostra, il laboratorio del Futurliberty di Forquet. Il quale, immaginiamo, sia rimasto folgorato come noi dal meraviglioso scialle per Benedetta Marinetti, in tulle ricamato, lungo ben 2 metri e 70. Un gioiello di Balla, squillante di colori, dove le geometrie ritrovano a sorpresa l’armonia e la pace delle forme vegetali.