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Furiosi noir in tinta giapponese

Furiosi noir in tinta giapponeseUna scena da Branded to Kill/La farfalla sul mirino di Seijun Suzuki

Maboroshi È diventata oramai quasi una sorta di usanza fra il popolo dei cinefili della rete quella di dedicare il mese di novembre al genere giallo

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 15 novembre 2019

È diventata oramai quasi una sorta di usanza fra il popolo dei cinefili della rete quella di dedicare il mese di novembre al cinema di genere noir, Noirvember. Una buona scusa insomma per esplorare uno dei generi che più hanno saputo, ed sono ancora capaci di farlo, incrociare letteratura e problematiche sociali con la settima arte. Se è vero che il periodo classico del genere di solito si identifica con quello che va fra gli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, e una determinata area geografica, gli Stati uniti, è altrettanto vero che i confini temporali e spaziali si estendono di molto, quasi senza limiti.

IN GIAPPONE per esempio, non c’è dubbio che gli anni più prolifici siano stati i sessanta, quando una delle grandi case cinematografiche nipponiche in crisi, la Nikkatsu, decise di lanciare un cinema che potesse attrarre anche le nuove generazioni. Per far questo decise di affidare le redini della sua produzione a molti giovani autori, dando loro ampia libertà espressiva. Uno dei nomi che più diede lustro al genere fu senza dubbio Seijun Suzuki, a partire forse da Take Aim At The Police Van del 1960, lavoro fra i più «regolari» del regista giapponese, che si sarebbe ampiamente sbizzarrito in futuro. Già a partire da Youth of the Beast di tre anni dopo, con protagonista Joe Shishido, uno dei volti, e delle guance, più riconoscibili del genere, dove comincia a notarsi un uso della violenza molto particolare, quasi estetico. Il percorso di Suzuki sarebbe continuato con Tokyo Drifter del 1966, stilizzato film sulla malavita giapponese che sfocia quasi nell’espressionismo astratto nell’ultimo duello, uno dei finali più citati e stracitati. Ma forse il suo noir più anticonvenzionale e famoso è Branded to Kill/La farfalla sul mirino del 1967, pellicola che decostruisce il genere con un taglio estetico anarchico e satirico che ancora oggi lascia a bocca aperta. Il film diventò famoso anche perché causò le ire della Nikkatsu e l’allontanamento di Suzuki dalla casa di produzione, evento che di fatto lo spinse fuori dal cinema giapponese per più di un decennio.

PROTAGONISTA di La farfalla sul mirino era ancora Shishido, attore che troviamo anche in un altro classico del genere, A Colt Is My Passport (1967), storia di un gangster e del suo doppio gioco verso due clan rivali, un ottimo film con molta azione diretto da Takashi Nomura. Non sorprenderà i più appassionati che alcuni dei noir giapponesi più riusciti siano stati diretti niente di meno che da Akira Kurosawa. Sono almeno tre i lungometraggi con cui il grande regista nipponico si è confrontato con il genere, e tutti e tre vedono fra i protagonisti il compagno di una vita Toshiro Mifune. Cane randagio del 1949 utilizza gli stilemi del genere per tratteggiare la difficile situazione della società giapponese dell’immediato dopoguerra, mentre I cattivi dormono in pace è la storia di vendetta di un uomo verso i responsabili della morte del padre, coloro che occupano i piani alti di una grande compagnia finanziaria. Il film è anche una critica della forte corruzione che stava intaccando un paese che cercava – riuscendoci – a rimettersi in piedi dopo il disastro bellico. Kurosawa continua l’analisi dei lati oscuri della ripresa economica nel 1963, un anno prima delle Olimpiadi di Tokyo, con Anatomia di un rapimento, storia di un imprenditore e del riscatto chiesto per suo figlio in un momento cruciale per la sua carriera. Certo il noir nell’arcipelago non si ferma a questi lavori e la lista potrebbe continuare con opere leggere ma ad alto contenuto d’azione di Koreyoshi Kurahara o anche con certi lavori di Yasuzo Masumura (con Yukio Mishima!), solo per restare nel periodo fra i sessanta ed i settanta.

matteo.boscarol@gmail.com

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