Un altro cinema italiano è possibile e, soprattutto, esiste. Anche se spesso autoprodotto, anche se quasi sempre viene mal distribuito o non viene distribuito affatto. Da cinque anni c’è una rassegna – o chiamiamolo osservatorio – che si preoccupa di mappare il panorama nostrano dell’audiovisivo senza fare alcuna distinzione di forme e di formati. Unico parametro: è che tutte le opere siano «fuori norma», produttivamente ma soprattutto linguisticamente. Concetto arduo che è diventato anche il titolo di questo appuntamento che può ripetersi diverse volte in un anno, principalmente a Roma ma anche in altre città e in spazi sempre diversi. A fondare Fuorinorma è stato Adriano Aprà, già critico militante dagli anni ’60 e poi storico del cinema. «Nato nel 2017 (dopo un’anteprima’ alla Mostra di Pesaro del 2013)», spiega Aprà, «con il sottotitolo ‘La via neosperimentale del cinema italiano’, Fuorinorma non è più un esperimento. È la certezza che esiste in maniera consistente un ‘altro’ cinema di autori italiani (alcuni viventi all’estero) contrapposto a quello di produzione industriale, fossilizzato su formule stereotipate per un pubblico passivo. Infatti abbiamo cambiato il nostro sottotitolo: Le nuove forme del cinema italiano.

Circa 200 lungometraggi dal 2006 a oggi, più di 60 mediometraggi, più di 70 cortometraggi di finzione, documentari, di animazione, sperimentali parlano chiaro: il cinema industriale agonizza e neppure la critica si è accorta che c’è, altrove, una vera e propria rinascita del nostro cinema per spettatori attivi, che stupisce e non instupidisce».

La nuova edizione di Fuorinorma si terrà a Roma dal prossimo 8 dicembre fino al 10 nella sala di SCENA (Spazio Cinema, Eventi e Nuove Arti) con un ricco programma composto da 11 cortometraggi, 8 lungometraggi e 2 mediometraggi, cui si aggiungono gli inevitabili omaggi a due autori, da poco scomparsi, che Aprà ha da sempre seguito e sostenuto: Jean-Luc Godard e Jean-Marie Straub (sabato 10, rispettivamente alle ore 11.30 e 15). Non manca naturalmente l’approfondimento teorico con un incontro, venerdì 9 alle ore 10, dal titolo La nuova estetica del digitale, cui interverranno tra gli altri Pietro Montani e Daniele Vicari, di cui è appena uscito il nuovo film Orlando.

In realtà Fuorinorma è nato fin da subito come un progetto collettivo e democratico. «La selezione la fanno soci e collaboratori, fra cui praticamente nessun critico, perché credo più agli spettatori intelligenti che ai critici», puntualizza sempre Aprà, il quale comunque una sua forte impronta personale alla manifestazione. Già ma perché allora non farne un festival vero e proprio, dal momento che lo studioso è stato direttore di festival fortemente innovativi e controcorrente come Salsomaggiore negli anni ’80 e Pesaro negli anni ’90? «Perché i film selezionati ogni anno sono troppi e perché ci piace la formula alternativa del festival espanso, che si svolge in più tempi e in più sale indipendenti». Tra gli autori di questa edizione troviamo Salvatore Mereu con Bentu e Christian Carmosino con Il paese delle persone integre, entrambi presentati a Venezia alle Giornate degli Autori, ma anche Tommaso Landucci, autore di Caveman il gigante nascosto, documentario sul singolare scultore-speleologo Filippo Dobrilla che si è ammalato proprio durante le riprese morendo subito dopo a soli 50 anni. Dei due film di Giuseppe Boccassini (Ragtag) e di Menegazzo-Pernisa (L’irriducibile), presentato all’ultimo festival di Torino, parliamo più approfonditamente nei box di questa pagina. Tra gli autori di cortometraggi: Chiara Caterina, Donato Sansone, Licio Esposito, Diergo Marcon, Francesca Fini, Giulia Casali e altri.

Pugliese che vive e lavora a Berlino da molti anni – Giuseppe Boccassini lavora da sempre con il found-footage e con un approccio molto internazionale alla sperimentazione filmica. Ragtag è sicuramente la sua opera più matura, un «collage di timeline» di oltre 300 film per la maggior parte realizzati negli anni d’oro del cinema noir, ovvero dai primi anni ’40 ai primi ’50, tutti in copie restaurate, che ci restituiscono l’esattezza dell’immagine in bianco e nero, nonché la forza espressiva e spaziale di questo genere. Come recitano le note di accompagnamento al film «il Noir è un modo di guardare il mondo, uno sguardo sulla vita e sull’esistenza umana che può essere inserito in qualsiasi genere». Ovviamente Ragtag non si limita ad essere un film di montaggio, ma Boccassini – con grande sapienza e capacità di dominare un materiale vastissimo – interviene sulle immagini, seppure in modo minimo, con procedimenti che vanno dallo sfarfallio alla reiterazione delle inquadrature, dalla conversione positivo/negativo al verfremdungseffekt (effetto di distanziamento). Molto cinema sperimentale si è cimentato sul found-footage di cinema noir, pensiamo solo a Phoenix Tapes (1999) di Muller e Girardet, incentrato sull’intero corpus filmico di Hitchcock; Boccassini va in questa direzione, costruendo una personale narrazione frammentata, ridotta al minimo nei dialoghi e basata sui topoi formali del genere, restituendoci – mediante la decostruzione e ricombinazione di spezzoni – quel senso di straniamento, sospensione e attesa infinita che sembra essere lo specifico di questa categoria cinematografica.

Da due cineasti sperimentalmente radicali come Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa ci si sarebbe aspettato un film di tutt’altro tipo, mentre L’irriducibile si presenta come un documentario classico. Ma è proprio così? Per il loro lungometraggio d’esordio dopo una serie di notevoli cortometraggi quasi astratti, il duo ha deciso di confrontarsi con un portrait su una delle figure più particolari della nostra storia recente: condannato all’ergastolo per l’attentato di Peteano del 1972, il neofascista Vinciguerra racconta la sua guerra contro lo Stato senza compromessi, fino all’allontanamento, senza mai pentirsi e senza ottenere sconti sulla pena, dalla destra eversiva collusa con i servizi segreti. Ne viene fuori un lavoro molto rigoroso ed essenziale, dove il repertorio è fornito dagli home movies che restituiscono l’atmosfera di un’epoca, mentre la cronaca degli anni di piombo ci viene restituita nella sua dimensione sonora e dalle desolate vedute notturne dei luoghi che sono stati il teatro di tragici eventi. Solo quattro gli intervistati (tra cui il magistrato Guido Salvini e il politologo Aldo Giannuli), ma il film è costruito soprattutto sul volto quasi pietrificato di Vinciguerra, sulle sue parole scandite lentamente, sui suoi sguardi, sui suoi silenzi, che rafforzano l’aura di clausura di questa sorta di monaco laico che continua dal carcere la lotta, ormai completamente solo.