Internazionale

Fuori i «mercanti» dai templi del calcio

Fuori i «mercanti» dai templi del calcioLo stadio di Rio de Janeiro

Confederation Cup Critiche da Romario e Zico

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 19 giugno 2013

Qualcuno lo chiama «modello inglese». Altri parlano di gentrification, cioè il processo di espulsione dei poveri dai centri urbani avvenuto nelle città globali degli ultimi decenni. Il risultato è sempre lo stesso: i ricchi entrano negli stadi, chi non ha i soldi resta fuori.

Anche nelle arene del Brasile, la nazione più calciofila del mondo, si sta ripetendo quanto avvenuto in tante parti d’Europa, e in particolare in Inghilterra con i suoi stadi-gioiello inaccessibili a chi a stento ha il denaro per arrivare a fine mese. Un processo inarrestabile, che con l’avvicinarsi dei Mondiali del prossimo anno ha subìto un’accelerazione decisiva. Solo nel 2005 il biglietto più economico per accedere al leggendario Maracana costava poco più di un euro. Oggi la capienza è ridotta a «soli» 79mila posti, e di euro per entrare ne servono almeno 30. Tantissimo se si tiene presente che per buona parte dei brasiliani lo stipendio è ben al di sotto dei 250 euro.

Per il Brasile gli effetti del cambiamento sono di portata enorme, anche in termini sociali. Nella patria adottiva del pallone gli stadi hanno rappresentato da sempre, e più che altrove, un potente strumento identitario, capace di coinvolgere l’intera società brasiliana e ricomporne i contrasti. Durante l’ultima stagione, invece, la media di spettatori è stata di 13mila unità, inferiore persino a quella della Major League of Soccer, il massimo campionato Usa. Poco più di un mese fa il viceministro dello Sport Luis Fernandes ha ammesso che, in qualche modo, la situazione sta sfuggendo di mano: «Il governo è molto preoccupato di quanto sta accadendo e affronterà il problema molto seriamente. Avere stadi socialmente esclusivi come risultato degli investimenti per la Coppa del Mondo non è l’eredità che vogliamo».

Visto così, lo scoppio delle proteste a San Paolo e nelle altre città brasiliane proprio in occasione della Confederation Cup (antipasto del Mondiale che verrà) non può essere motivato solo con l’opportunità di avere una vetrina internazionale da sfruttare. A essere messa in discussione è infatti la stessa Coppa del mondo con i suoi sprechi e la sua concezione elitaria dello sport. A fronte di un’economia che non tira più come qualche anno fa, e di un’inflazione in costante crescita, capace di erodere il potere di acquisto dei ceti meno abbienti, l’enorme spesa sostenuta in opere sportive (in tutto oltre 2,5 miliardi di euro, versati quasi totalmente dagli Stati federali) appare intollerabile.

Al Ronaldo che si fa sponsor e testimonial Fifa rispondono altre vecchie glorie del calcio brasiliano, che sembrano raccogliere l’appello dei contestatori. Secondo Zico, star della nazionale verde-oro degli anni ’80, «la gente appare distante dalla Coppa del Mondo, perché si rende conto della corruzione, degli sprechi compiuti e della mancanza di trasparenza». Così Romario, campione del mondo nel ’94 e attualmente deputato del Partito socialista (Psb).

«La Fifa – ha dichiarato qualche tempo fa – viene qui, mette in piedi uno Stato nello Stato, e poi se ne va con 2 o 3 miliardi di dollari tra le grinfie. E poi? Lo stesso denaro poteva essere speso nell’istruzione, nella sanità, cose molto più importanti per il nostro paese». Le stesse preoccupazioni le condividono le centinaia di migliaia di brasiliani che manifestano in queste ore. A Brasilia la ristrutturazione dello stadio Mane Garrincha è costata circa 450 milioni di euro e ha richiesto la cancellazione del museo indigeno, di una scuola e di diversi impianti sportivi minori. A San Paolo, sulla base di uno studio citato dal quotidiano Folha, circa 100mila persone sono state sfrattate dalle loro case a causa dei lavori della Coppa del mondo.

E che ne sarà di queste cattedrali a Mondiali finiti? Dove ci sono più prospettive di «sfruttamento» entreranno in gioco i privati. Il Maracana, ad esempio, a Mondiali finiti passerà per 35 anni dallo Stato di Rio de Janeiro a un consorzio multinazionale, di cui fa parte anche la Aeg di Los Angeles, azienda leader per l’organizzazione di manifestazioni sportive e di intrattenimento. Altri stadi, invece, sono stati costruiti in città in cui nemmeno esiste una squadra di prima fascia, come l’arena Amazonia a Manaus e l’arena Pantanal a Cuiaba, e con ogni probabilità resteranno sul groppone dei governi federali. Uno slogan che gira in queste ore sintetizza il tutto: «Adesso abbiamo stadi da primo mondo. Non ci resta che costruirci un paese attorno».

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