Tutto fatto, come voleva il governo e in particolare il ministro Lupi? Per niente. “La trattativa con Alitalia è ancora in fase di sviluppo. La nostra intenzione, se andrà bene, è di acquisire il 49%”. James Hogan soppesa le parole. Ma anche il numero uno di Etihad rischia di scivolare sul piano inclinato di un affaire che ogni giorno moltiplica le variabili. Con la Cgil che decide di non firmare l’accordo sui quasi 1.700 licenziamenti. E i sindacati di piloti e assistenti di volo che non accettano il nuovo contratto di lavoro, a causa dei tagli ai loro stipendi. Per giunta l’Unione europea, allertata dalla concorrenza continentale del trasporto aereo – da Lufthansa a British Airways – vuole vederci chiaro sul matrimonio Alitalia-Etihad. “Non abbiamo il controllo – replica Hogan – né desideriamo averlo”. Al tempo stesso il manager australiano detta la linea: “La nostra posizione è molto chiara sulle dimensioni della compagnia, dobbiamo ridurre i dipendenti”. Alla fine c’è anche una minaccia: “Non è possibile investire se non è chiara la road map: servono trasparenza e chiarezza per arrivare a un accordo”.

La due giorni romana di Hogan si chiude ben diversamente da come avevano immaginato il ministro Lupi e i vertici di Alitalia, ad Del Torchio in testa. Se ne rende conto anche l’illustre ospite: “La speranza è di arrivare a un accordo a fine mese. Ma se c’è bisogno di più tempo, è previsto dall’accordo. Sono qui per far capire che siamo intenzionati”. Anche ad incontrare chi, come l’ad di Poste italiane Francesco Caio, ha già “investito” in Alitalia 75 milioni di euro e ancora non sembra convinto di andare avanti – con i debiti della compagnia in costante, quotidiano aumento – a spendere i soldi di un’azienda pubblica al 100%. Per giunta in una realtà conflittuale come quella che si sta delineando dalle parti di Fiumicino.

Anche se annunciata, una delle notizie del giorno è infatti la mancata firma della Cgil al piano del management Alitalia-Cai – e del governo – sui 1.687 addetti della compagnia obbligati alla mobilità. Dopo le analisi molto critiche dei giorni scorsi, già al mattino la la Filt-Cgil ammoniva: “Dobbiamo decidere se applicare il diritto e la legge italiana, o quella araba”. Poche ore dopo, con una lettera inviata a Lupi e al ministro del lavoro Poletti, è arrivato il no definitivo. “Permangono le nostre contrarietà – scrivono Susanna Camusso e Franco Nasso della Filt – e rimane incomprensibile la posizione dell’azienda Cai che ha respinto qualsiasi mediazione utile ad evitare la messa in mobilità e i licenziamenti, rifiutando la proposta, ritenuta percorribile anche dal ministero del lavoro, di utilizzo della cigs per accompagnare lo sviluppo del piano industriale. Le modalità di trasferimento del personale e la conseguente angosciosa prospettiva del licenziamento avviene peraltro attraverso soluzioni di dubbia legittimità, che l’azienda dovrà affrontare. Le ipotesi di ricollocazione appaiono incerte ed aggiungono ragioni di grande preoccupazione tra i lavoratori”.

Da Corso Italia si rinvia al mittente l’accusa di essere il sindacato del “no”: “C’è la nostra decisione di firmare il contratto e l’accordo sulla riduzione del costo del lavoro”. Ma qui il giudizio negativo e dei piloti e degli assistenti di volo, riuniti nelle tre sigle Anpac, Avia e Anpav, oltre che della Uilt: “Il contratto deve contenere condizioni normative che si applicano solo al personale navigante – avvertono – siamo comunque disponibili a prolungare di tre anni l’attuale contratto di lavoro di Alitalia, per dare la stabilità delle regole e la pace sociale richiesta da Etihad”. Nuovo round nella notte, chiesto da un governo molto in affanno: “Se Cgil e Usb dicono di no – il ministro Lupi ha occhi solo per loro – ne terremo conto. Ma le leggi in Italia valgono ancora. Se c’è il 50% più uno si va avanti”. Più realista, in serata, Gabriele Del Torchio: “Dovevamo allineare le banche, i sindacati, le Poste italiane e a questo punto, se non prevale il buonsenso di tutti, non si va da nessuna parte e l’epilogo è drammatico”.