Fulmineo nello stile della prosa, come in battaglia
Condottiero letterato Una enciclopedia minima dei topoi alla moda e del gusto letterario fine ’700: «Il profeta velato», edizioni La Lepre
Condottiero letterato Una enciclopedia minima dei topoi alla moda e del gusto letterario fine ’700: «Il profeta velato», edizioni La Lepre
Che Napoleone Bonaparte sia stato, oltre al resto, «il maggiore scrittore del suo tempo» è affermazione, tanto sorprendente quanto autorevole, del grande storico della rivoluzione francese, e uomo politico, Adolphe Thiers, che aveva in mente i pezzi giornalistici, gli interventi politici, i bollettini della Grande Armée, le numerosissime lettere (quelle d’amore a Giuseppina, quelle militari dettate nel vivo delle campagne), e naturalmente il Memoriale di Sant’Elena, bibbia di un’intera generazione (si ricordi Julien Sorel, nel Rosso e il nero di Stendhal), di cui pure l’esule imperatore detronizzato condivide la paternità letteraria con Emmanuel de Las Cases. Di certo, Thiers non si riferiva alle acerbe prove narrative di gioventù, che erano già note al pubblico italiano grazie a un’edizione Sellerio del 1980, da tempo esaurita, il cui titolo riprendeva quello del racconto più ampio, Clisson ed Eugénie (bella traduzione di Chiara Restivo, memorabile postfazione di Leonardo Sciascia) e che le edizioni La Lepre riprendono titolandole Il profeta velato Racconti e scritti letterari, a cura di Carlo Laurenti (pp. 112, euro 16,00).
Quelli toccati in sorte a Bonaparte non erano tempi favorevoli alla letteratura: non a caso, anche come scrittore riuscì meglio nei testi direttamente legati all’azione politica e militare. Eppure, fantasticava Sciascia, se fosse nato qualche anno più tardi, sarebbe forse diventato Stendhal. Di certo, la precisione icastica di uno stile tagliente, incalzante, insofferente di ogni fronzolo esornativo, di ogni indugio descrittivo, compare già in questi componimenti letterari, dove perfino l’esotismo rinuncia al pittoresco, perché il racconto fila sempre dritto verso una fulminea conclusione. E davvero sorprende la coerenza di questo stile con i tratti distintivi di quello che sarebbe diventato il mito napoleonico: rapidità, decisione, insostenibile tensione. Perciò non si può dar torto all’illustre tradizione critica degli ammiratori, che da Thiers passa anche per un insolitamente generoso Sainte-Beuve, pronto a spendere il paragone con Blaise Pascal.
In realtà, il maggiore, e paradossale, motivo d’interesse dei testi del giovane Bonaparte, sta forse nella prevedibile banalità dei temi che affrontano, quasi a voler costituire una minima enciclopedia dei topoi alla moda e del dominante gusto letterario fine-settecentesco. Apre il volume dell’editore La Lepre una scorribanda nell’esotismo dell’VIII secolo arabo, Il profeta velato, ellittico resoconto della cosiddetta rivolta di Al-Muqanna; seguono un omaggio alla voga del racconto storico in salsa anglosassone (Il conte di Essex) e uno a quella delle robinsonate (rilette alla luce dell’onnipresente Rousseau e di Bernardin de Saint-Pierre), non senza qualche implicazione di nostalgia autobiografica: Novella còrsa è infatti la storia di un conterraneo di Napoleone, esule eroico e selvaggio, animato da feroci sentimenti antifrancesi, che vive da eremita sull’isola di Gorgona.
In ciascuna di queste storie, il curatore del volume, Carlo Laurenti, crede di poter scorgere un esercizio di «autopoiesi», cioè una premonizione di quelle che sarebbero state le vicende biografiche dell’uomo pubblico, quasi che Bonaparte non si fosse limitato a farsi la mano sui modelli alla moda, come ogni giovane convinto di possedere qualche talento letterario, ma avesse profeticamente vergato, per interposti personaggi di finzione, le tappe fondamentali del proprio destino: novelle, insomma, come «colpi da rabdomante», che «afferrano una fantasia latente».
La domanda che torna ossessivamente nell’introduzione e nelle note ai testi è quella che campeggia sulla quarta di copertina: «Napoleone divenne ciò che sognava di essere da giovane?». Così, il fascino per l’immaginario orientaleggiante condurrebbe quasi di necessità all’impresa egiziana; l’isola di Gorgona prefigurerebbe l’esilio a Sant’Elena; e la morte del conte di Essex, sarebbe, addirittura, annuncio del futuro assassinio del duca d’Enghien.
Ora, che l’invenzione narrativa possa oscuramente configurarsi come geroglifico anticipatore di un tragitto esistenziale è la tesi, arrischiata e affascinante, di un bel libro (mai tradotto in Italia, né citato da Laurenti) di Pierre Bayard, Demain est écrit, pubblicato, va da sé, nella collana «Paradoxe» delle Éditions de Minuit, nel 2005. Bayard decostruisce i tradizionali modelli della critica di ispirazione psicoanalitica per suffragare l’ipotesi che la letteratura possa funzionare come un sismografo, in grado di captare le tracce di avvenimenti futuri, che sfuggono alla coscienza stessa del soggetto scrivente. Prova ne sarebbero le inquietanti analogie fra le invenzioni narrative di Oscar Wilde e di Virginia Woolf, di Proust e di Kafka, e le successive vicende biografiche degli autori.
È un’ipotesi spericolata, cui si può forse riconoscere un’intermittente plausibilità nell’universo irriducibilmente individuale dei narratori modernisti, mentre appare a priori destituita di ogni possibile fondamento nel caso di scritti, come quelli letterari di Napoleone, che recepiscono passivamente storie e motivi topici, condivisi nell’immaginario di un’intera epoca. A meno di voler ripetere un’ovvietà idealista: che cioè il personaggio eccezionale è l’incarnazione dello spirito dei tempi (o, se si preferisce, dell’inconscio collettivo).
A fare le spese delle inclinazioni divinatorie del curatore per il presunto «contenuto cifrato» delle novelle sono i testi più interessanti del giovane Bonaparte: La cena di Beaucaire, che già nel 1793 dispiega una consumata eloquenza politica, non meno efficace, e anzi quasi ricattatoria, perché ancora al servizio degli ideali montagnardi; e soprattutto la novella (o abbozzo di romanzo) Clisson ed Eugénie, che mette in scena il conflitto fra dovere e passione, ragione e sentimento, gloria e amore, pagando l’inevitabile scotto al côté melodrammatico dell’immaginario tardo-settecentesco, ma proponendo anche insistiti e non banali interrogativi: in primo luogo, sull’ipotesi del suicidio, di cui Napoleone parla in vari scritti, e non solo per ossequio alla moda wertheriana; in secondo luogo, sulle forme, i modi, i limiti della felicità.
Già in un altro testo compreso nel volumetto, il Dialogo sull’amore, il bonheur è illuministicamente inteso come scopo, e anzi diritto, del genere umano: «siamo nati per essere felici», è «la legge suprema che la natura ha scolpito nel profondo di ognuno di noi». In Clisson ed Eugénie, l’occasione biografica della scrittura è il raffreddamento dell’amore fra il giovane generale Bonaparte, in disgrazia dopo la caduta di Robespierre, e l’avvenente Désirée Clary, futura moglie di Bernadotte e regina di Svezia; ma la vicenda del giovane ufficiale, Clisson, che si immola in battaglia in un dissimulato suicidio, è figura di un’esaltazione al tempo stesso politica, filosofica e passionale, e di un’affermazione prepotente dei diritti dell’individuo moderno, tipiche di un’epoca che sotto i paludamenti classicisti accoglie precoci fermenti romantici.
La riproposizione in libreria di questa interessante novella avrebbe potuto costituire per il pubblico italiano una parziale ma importante novità, rispetto al volume di Sellerio del 1980, perché nel frattempo il ritrovamento di materiali manoscritti inediti ha consentito a Peter Hicks e Émilie Barthet di approntare finalmente una versione attendibile e completa del testo, pubblicata nel 2007 per Fayard (con ottima postfazione di Gérard Gengembre). Invece Laurenti, che pure negli apparati fa scialo di ampia quanto eteroclita erudizione, non sembra conoscere questa impeccabile edizione critica, e si basa sul testo ormai datato proposto da Alain Coelho nel 1979.
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