Cultura

Fucine permanenti di autogoverno

Fucine permanenti di autogovernoAlia Ali, «Cast No Evil» (2015)

SIRIA E DINTORNI «Rojava una democrazia senza Stato», un testo corale a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson, edito da Elèuthera. Autodifesa, femminismo, abolizione del carcere come forma punitiva, ecologia, gestione federale

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 9 dicembre 2017

Il conflitto propulsore del cambiamento – quello socio-economico, come quello bellico – ha nel caso siriano il suo più recente esempio. La Siria del 2017, a sei anni dallo scoppio della guerra civile, dà forma a immaginari diversi: devastazione, repressione, fuga. Per i movimenti di sinistra e internazionalisti la Siria è il suo nord, teatro della trasformazione sotto una bandiera ideologica nuova per una regione violentata dal colonialismo europeo e dagli errori della decolonizzazione e l’indipendenza. Una democrazia senza Stato è possibile? La domanda è quella posta da una regione sconosciuta ai più fino a poco fa, Rojava, dove l’esperimento in corso interseca direttrici niente affatto locali: la nascita innaturale degli Stati nazione e, oggi, il loro fallimento, accanto alla negazione di un’entità statuale – ovvia un secolo fa – quella curda.

I saggi raccolti in Rojava una democrazia senza Stato (Elèuthera, pp. 224, euro 16), opera di numerosi attivisti, politici, sociologi, e giornalisti di origini diverse – curdi, australiani, statunitensi, iraniani, turchi – sono i pezzi di un puzzle solo apparentemente complesso che disegnano la realtà fattuale, gli obiettivi desiderati e le contraddizioni che ogni esperimento politico porta con sé, i passi avanti e gli stalli del processo di democratizzazione dal basso.

È UN VIAGGIO profondo e attento ai dettagli dentro la rivoluzione di Rojava, processo che si autoalimenta e si dipana tra le pieghe del contesto in cui si trova a operare, frutto di un’educazione continua ai concetti di base. Autodifesa, femminismo, uguaglianza nella differenza (che sia di genere, di etnia o di religione), abolizione del carcere come forma punitiva e sua sostituzione con la riabilitazione sociale e culturale, ecologia e rispetto dell’ambiente, gestione locale che si fa federale annullando il modello della democrazia rappresentativa che si ferma all’urna.

Il riferimento è al pensiero sviluppato negli anni della prigione, ormai quasi 20, dal leader del Pkk Ocalan che dietro le sbarre ha divorato libri e consumato penne. Per uscirsene con il modello di confederalismo democratico, organizzazione sociale non-statale che si richiama al municipalismo libertario dello statunitense Bookchin. Il contributo di Ocalan alla critica della modernità capitalista agisce a partire dal suo gruppo di riferimento, la «civiltà democratica», ovvero gli esclusi per eccellenza, donne, minoranze, poveri, popoli, attraverso la «sociologia della libertà», scienza che opera per la realizzazione di una prospettiva libertaria.

IL PRODOTTO è un modello di democrazia radicale che opera su due piani: sebbene abbia una struttura apparentemente statuale, elimina alla radice le caratteristiche tipiche dello Stato, coercizione, confisca dell’economia e verticalismo; dall’altra parte, si pone come rivoluzione anti-capitalista, oltre il mero capitalismo «minimo», dove redistribuzione e produzione collettiva di beni e servizi sono volti all’eliminazione della struttura piramidale del potere. Alla base l’idea che abolizione dello Stato e abolizione del capitalismo siano oggetti di una lotta unica perché frutto dello stesso sistema patriarcale. Il testo porta esempi concreti, l’analisi approfondita degli aspetti tecnici dell’organizzazione di base (dal sistema di giustizia alle unità di autodifesa), le voci dei protagonisti e le difficoltà del processo che è individuale prima che collettivo.

E SE LAMBISCE la retorica nei racconti degli «esterni», osservatori stranieri affascinati dal modello Rojava, ne mostra le tante sfaccettature – positive o negative, definizioni relative e in fieri – nelle analisi di chi la rivoluzione la sta facendo. Forte e costante è il riferimento storico e ideologico alla Spagna del 1936-1939, alla lotta socialista e anarchica al fascismo a cui Rojava guarda come esempio di battaglia internazionalista e non relegata a confini spaziali preesistenti. Ottant’anni dopo il nemico di Rojava ha volti diversi. Quello fascista dello Stato Islamico, quello repressivo degli Stati-nazione vicini, a partire dalla Turchia.

IL TUTTO CONDITO dalla felicità che corre in parallelo alla morte, resurrezione e accettazione del dolore perché necessario al cambiamento, serenità che è cornice a vittorie e sconfitte nella consapevolezza di star costruendo un futuro possibile, autodeterminato. E che quella ormai intrapresa è una condizione di rivoluzione permanente, un ciclo impossibile da interrompere: la sua fine significherebbe lo stallo della tendenza verso la liberazione completa della società.

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SCHEDA. Il diario di una lotta con gli «amici» curdi

Dal Val di Susa a Rojava, avendo come filo d’Arianna i movimenti di base, la democrazia partecipata, l’autorganizzazione. Dopo un lungo percorso che dal Bataclan lo ha condotto prima in Palestina e poi in Siria, dove ha combattuto al fianco delle unità popolari di difesa curde, Ypg e Ypj, Davide Grasso racconta la sua storia che è però, doverosamente, una storia collettiva. «Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria» (Alegre, pp. 352, euro 16) è la storia di una lotta comune a una ideologia fascista che fa paragonare Rojava alla Spagna degli anni ’36-’39. Un racconto ben narrato, vissuto in prima persona, diretto e rovente, che porta sul palcoscenico della Storia le persone e il loro progetto di libertà. Grasso non dà voce a sé ma alle donne e agli uomini, gli amici appunto («hevalen» in curdo), ma anche alle contraddizioni che una rivoluzione per sua natura porta con sé. (chi.cru)

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