Frutto della scienza non della magia
BICENTENARI Duecento anni fa veniva pubblicato «Frankenstein, o il moderno Prometeo». La forza del capolavoro di Mary Shelley sta nella sua ambiguità, nel suo prestarsi a interpretazioni diverse. Considerato il primo romanzo di fantascienza, è però dotato di atmosfere gotiche, e effetti visionari. L’autrice concepì la sua mostruosa creatura a diciannove anni, tra il 1816 e il 1817
BICENTENARI Duecento anni fa veniva pubblicato «Frankenstein, o il moderno Prometeo». La forza del capolavoro di Mary Shelley sta nella sua ambiguità, nel suo prestarsi a interpretazioni diverse. Considerato il primo romanzo di fantascienza, è però dotato di atmosfere gotiche, e effetti visionari. L’autrice concepì la sua mostruosa creatura a diciannove anni, tra il 1816 e il 1817
Quando Lord Byron, assediato con quattro amici dal maltempo e dalla noia in una villa sul lago di Ginevra, sfidò tutti a inventare una storia gotica non immaginava probabilmente che quel gioco letterario avrebbe aperto la strada a un filone del tutto inedito nella letteratura fantastica. Un fiume destinato a gonfiarsi nei decenni fino a sfociare con Blade Runner nella battuta forse più citata del cinema moderno, «Ho visto cose che voi umani…», passando per i robot di Asimov e gli androidi di Dick. Ancora meno avrebbe supposto che ad aprire quella nuova strada sarebbe stata la giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin, amante e futura sposa di Percy Shelley.
SEBBENE APPENA diciannovenne Mary non era del tutto alle prime armi con la penna. Figlia di una pioniera del femminismo morta poco dopo il parto e del filosofo William Godwin, era cresciuta in una casa dove capitava che Samuel Coleridge leggesse agli ospiti, prima di darlo alle stampe, il manoscritto della Ballata del vecchio marinaio. Mary scriveva compulsivamente novelle e racconti sin da bambina, anche se quasi tutti i manoscritti precedenti Frankenstein sono andati perduti. Nei circoli letterari che frequentavano casa Godwin aveva conosciuto a diciassette anni il poeta Percy Shelley e i due erano fuggiti insieme, girando senza un soldo in tasca mezza Europa e portandosi dietro la sorellastra di Mary, Claire, destinata a impigliarsi di lì a poco in una tempestosa relazione con lord Byron.
Nel 1816 i tre si ritrovarono sul lago di Ginevra con lo stesso Byron e il suo medico personale, lo scrittore John Polidori. Costretti in casa dalla pioggia, ammazzavano il tempo discutendo di filosofia e leggendo storie gotiche. L’idea della tenebrosa sfida letteraria venne in mente a Byron proprio in seguito a quelle letture, ma nel suo capolavoro Mary fece scivolare anche i discorsi di quei giorni, che vertevano essenzialmente sulle potenzialità della scienza e in particolare sulla possibilità di scoprire, come ricorda l’autrice nella prefazione del 1831 al libro sino a quel momento attribuito ingiustamente al celebre marito, «la natura del principio della vita e la possibilità di scoprirlo e divulgarlo».
IL GOTICO ANDAVA forte all’epoca, le storie spettrali di Ann Radcliffe e William Beckford incatenavano migliaia di lettori. La giovane Mary adoperò le stesse atmosfere cupe e ombrose, superando i maestri nell’effetto orripilante. Però, per mettere a punto il suo mostro non setacciò il sovrannaturale. Inventò, per la prima volta nella storia dell’immaginario gotico, un essere creato dall’uomo, in particolare dal giovane e geniale dottor Victor Frankenstein. Il mostro era un prodotto della scienza, non della magia. Per questo Frankenstein ossia il moderno Prometeo, è considerato non a torto il primo romanzo di fantascienza. Gotiche e spettrali sono però le atmosfere e gli effetti visionari, in un intreccio di generi che a prima vista apparenta il Mostro più alle tribù degli spettri e dei vampiri che non a quella dei cyborg e dei robot, della quale è invece il capostipite.
La Creatura aveva poco a che vedere con l’automa lento e inarticolato che oggi viene richiamato alla mente dal solo nome «Frankenstein». Era brutto, anzi ripugnante oltre misura, come la scrittrice si perita di far ripetere innumerevoli volte dal creatore stesso dell’essere senza nome. Ma era anche velocissimo, straordinariamente forte, capace di adattarsi a ogni clima come di arrampicarsi a mani nude sulle Alpi. Era anche dotato di eccezionale intelligenza e sensibilità delicata. La mostruosità della Creatura del dottor Frankenstein è in prima battuta solo fisica. È la sua bruttezza a respingere sin dal primo sguardo lo scienziato che gli ha dato la vita e a rendere poi ostile chiunque posi gli occhi sulle sue scostanti fattezze, persino quando il Mostro salva una bambina in procinto di annegare.
LA CREATURA CEDE all’odio e al desiderio di vendetta solo dopo essere stata violentemente rifiutato dal mondo e in particolare da quello che è a tutti gli effetti «suo padre». Se di Mostro bisogna parlare, quello è proprio lo scienziato. Abbandona la sua creatura un attimo dopo averle dato la vita e poi, senza nemmeno preoccuparsi di verificare quale sia la natura dell’essere che ha messo al mondo, si dimentica della sua esistenza per mesi. Tradisce la solenne promessa di alleviare il peso della sua estrema solitudine dotandolo di una compagna, pur sapendo che così esporrà a rischi mortali tutti quelli a cui vuole bene.
Quando il Mostro tradito promette di punirlo «nella prima notte di nozze», il dotto immagina che sia lui in pericolo e non anche la sposa, nonostante il vendicativo essere abbia già dimostrato di volerlo colpire negli affetti strangolando suo fratello e il suo miglior amico come farà poi con la moglie appena impalmata. Difficile immaginare un creatore più sordo e impermeabile alla sofferenza dell’essere che ha portato al mondo ma anche al pericolo che fa correre a chiunque ami.
Il dolore e la furia della Creatura di Frankenstein sono certamente il riflesso della rivolta contro una divinità indifferente alla sorte delle sue creazioni, o peggio ostile, tanto più che questo tema era centrale nella riflessione filosofica di Percy Shelley. Ma l’enigma non riguarda la reazione sanguinaria del Mostro. Misterioso e inspiegato è invece il rifiuto immediato e insanabile dello scienziato nei confronti del frutto del suo lavoro. La corazza di Victor Frankenstein viene incrinata da una ventata di empatia e compassione solo per un fugace attimo, subito rinnegato. Sembra evidente che la repulsione del Creatore nei confronti del proprio stesso parto sia il rifiuto inorridito di fronte a una parte di se stesso: dunque non è forse dovuto solo a distrazione l’equivoco abituale per cui siamo tutti abituati a chiamare «Frankenstein» la Creatura senza nome invece che lo scienziato.
L’assonanza tra il rapporto vizioso che vincola Victor Frankenstein al suo Mostro e lo «strano caso» che Robert Louis Stevenson avrebbe illustrato esattamente settant’anni più tardi, quello del dottor Jekyll e mr. Hyde, è stata più volte segnalata. La sensibilità della Creatura è affine a quella dello scienziato, la straordinaria intelligenza li accomuna, persino la passione per la montagna è la stessa. Il Mostro è una parte di Frankenstein, priva però della voluttuosa e feroce amoralità di Hyde. Al contrario è tormentato dai sensi di colpa proprio come l’inventore: i due sono avvinghiati in un rapporto funesto e fatale di reciproca dipendenza.
FORSE CIÒ CHE FRANKENSTEIN vede riflesso nella Creatura e che lo inorridisce è semplicemente un se stesso depurato non dalle pastoie della morale, come nel caso di Jekyll e Hyde, ma dai legacci imposti dai rapporti sociali e affettivi, delle buone maniere, dai buoni sentimenti: un essere che vanta le sue stesse doti e i suoi stessi difetti ma amplificati in forma estrema e molto più violenta, un Frankenstein tanto drastico quanto lui è irresoluto e titubante. Il replicante desta nel modello originale paura e repellenza ma forse anche inconfessata invidia, se è vero che il dottore giustifica la decisione di non rispettare la promessa di costruire una compagna per il Mostro con il terrore di una super-razza destinata a rimpiazzare quella umana.
La forza del capolavoro di Mary Shelley è proprio nella sua ambiguità: in una capacità di prestarsi a interpretazioni diverse e opposte modificando il punto di vista dovuta probabilmente alla padronanza non ancora piena, per fortuna, dell’autrice sul testo. Negli anni successivi Mary Shelley avrebbe pubblicato altri libri, con padronanza e consapevolezza molto maggiori e tuttavia senza mai sfiorare il risultato raggiunto con quel libro buttato giù in pochi giorni e poi revisionato solo marginalmente.
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