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Fronte dello shutdown, Obama in ostaggio

Fronte dello shutdown, Obama in ostaggioLa protesta dei sindacati contro i repubblicani responsabili dello shutdown – Reuters

Stati Uniti Su Washington incombe lo spettro del default sulle obbligazioni del tesoro. Il presidente Usa: «Effetti disastrosi sull’economia del paese e sui mercati globali»

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 8 ottobre 2013
Luca CeladaLOS ANGELES

Washington rimane paralizzata nella morsa dello stallo politico che vede gli Stati Uniti sull’inesorabile rotta di un default sulle obbligazioni del tesoro dalle potenziali disastrose conseguenze sull’economia del paese e sui mercati globali. Una «bomba atomica» finanziaria, l’ha definita domenica il miliardario Warren Buffett. Il saldo del debito nazionale prevede che questo venga autorizzato a consuntivo dal congresso ma i repubblicani insistono nel tenere ostaggio quel voto a meno che Obama non accetti di abrogare, modificare o ritardare la riforma sanitaria adottata nel 2010 e che sta entrando in vigore in questi giorni. Il presidente ha finora opposto un netto rifiuto definendo un inaccettabile ricatto la posizione repubblicana che ha già determinato la «chiusura» del governo federale e la sospensione di 800000 statali fino a data da definirsi.

Nel caos istituzionale fra le due parti non è nemmeno in corso una discussione, salvo quella indiretta, tra rispettive dichiarazioni a stampa e talk show. Il presidente della camera John Boehner ha nuovamente ribadito il suo ultimatum: non vi sarà cedimento repubblicano, né sulla sanità né sul debito in assenza di sostanziali concessioni da parte di Obama. Quest’ultimo conferma invece che intratterrà un negoziato solo se e quando la fronda repubblicana alla camera cessi l’ostruzionismo su salute pubblica ed economia.

Una paradossale «crisi da ostaggio» come quelle che notoriamente sono più pericolose quando cessa il dialogo fra banditi e polizia, resa più volatile dalla scadenza improrogabile del 17 ottobre. Data di maturità sulle obbligazioni del tesoro oltre la quale gli Stati Uniti verranno ritenuti in mora dai mercati, un ipotesi che incredibilmente si fa più verosimile con ogni giorno di intransigenza repubblicana. Il tutto fra la crescente incredulità generale, «non sarebbe» diceva domenica un commentatore della radio pubblica Npr, «come un inquilino che viene sfrattato perché a perso il lavoro e non può pagare l’affito. Semmai come uno che perde la casa perché sta litigando con la moglie e per ripicca brucia il libretto degli assegni». Una prospettiva con prevedibili effetti sui mercati e mentre a Wall Street aumenta l’ansietà della finanza, i sondaggi rivelano che anche la maggioranza degli americani è fortemente contratriata dalla disfunzione istituzionale. Dati che non sembrano però influire sulla posizione delle fazioni inegraliste di area Tea Party che trarrebbero solo vantaggio politico da un immolazione ideologicamente pura e che Boehner ha scelto di non contrastare per timore che gli estremisti ritorcano anche contro di lui la stessa ira funesta.

Al di là delle rivendicazioni specifiche è sempre più chiaro che lo psicodramma rivela una crisi fondamentale del processo democratico, ostaggio, questo sì, di una sclerosi ideologica, un populismo calcificato che premia la demagogia sulla ragione. In questo caso è il vangelo del governo minimo assurto a mantra fondativo di una destra sempre più messianica e apocalittica che vorrebbe abolire le tasse e i servizi sociali. Esautorata dalle elezioni presidenziali e dalla fondamentale composizione etnica, demografica e politica di un’America in marcata transizione culturale, la destra ha visto diventare progressivamente più irrilevanti antiche coalizioni e gli anacronistici «valori tradizionali» a cui in passato si è rifatta. La risposta è stata una deriva ideologica che calca sulle cesure sociali più profonde e incolmabili. Le cosiddette «culture wars», spaccature dogmatiche su welfare, discriminazione e immigrazione sono diventate ossessioni conservatrici che con l’ascesa del Tea Party si sono impadronite dell’agenda repubblicana. Gli scontri «culturali» sono diventati registro unico della conversazione politica di destra, perseguiti con fervore simile a quello maccartista sul comunismo, (una precedente deriva repubblicana che ha rischiato durante la Guerra fredda di distruggere il paese). L’attuale ossessione è l’ultraliberismo sociale, le libertà individuali nel nome delle quali si invoca la distruzione del welfare state, perché il paese torni ad essere quello «originale» in cui chiunque può farcela (ma non tutti).

Pur se minoritarie le posizioni sono politicamente consolidate attraverso strategie inizialmente applicate da luminari neoconservatori come Newt Gingich e Karl Rove (lo stratega politico di Bush); in primo luogo il «gerrymandering» cioè la modifica dei collegi elettorali di modo da trarne il maggior vantaggio possibile. Col sistema maggoritario infatti è possibile, ridisegnando i confini fisici dei distretti e privilegiando determinate concentrazioni ideologiche e demografiche, assicurarsi esiti elettorali favorevoli pur a fronte di una proporzionale minoranza. Con questo sistema ad esempio la Pennsylvania, vinta da Obama col 52% ha mandato al congresso 13 rappresentanti repubblicani contro soli 5 democratici. Un sistema che in parte spiega l’ascesa, e la «virulenza» politica della minoranza estremista che in questi giorni si è impadronita della democrazia americana.

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