«Ho iniziato con la musica in modo professionale all’età di diciotto anni in una taverna chiamata, che ci crediate o no, The Roman Forum. Ho suonato ovunque negli Stati uniti e anche a livello internazionale ho girato molto. Quindi posso affermare senza tema di smentita che ho conosciuto tanti promotori di concerti… detto questo, non ho mai incontrato nessuno come Graziano Uliani. Sono straordinari i retroscena che raccontano come abbia messo insieme questo bellissimo soul festival. E per me, è un’onore farne parte». Così Curtis Salgado commenta la sua presenza alla trentaquattresima edizione del Porretta Soul Festival, iniziato mercoledì 20 luglio con un convegno imperniato sulla figura dell’etnomusicologo Alan Lomax, e che da ieri ha visto il via dei ventisei concerti in scena presso il Parco Rufus Thomas di Porretta Terme, a cui si aggiungono una lunga sfilza di eventi collaterali.

NELLA RASSEGNA Salgado sarà protagonista in due concerti, domani e domenica, portando il suo blues esplosivo e carico di groove, pescando sia dalle passate uscite discografiche che dal recente e riuscito Damage Control, pubblicato dalla Alligator Records. Lo abbiamo incontrato in una Roma infuocata dove le alte temperature rammentano la città di New Orleans, scoprendo con curiosità che il cantante e armonicista statunitense ha con l’Urbe un rapporto di lungo corso: «Sono venuto per la prima volta in Italia nel 1995 da solo, con un’idea in testa, quella di scoprire Roma. Ed esserci ancora oggi, è una fortuna». La storia musicale di Salgado è quella di un artista pieno di talento che si è affermato sia grazie alle capacità autoriali che a quelle di performer sul palco. Lo raccontano gli innumerevoli premi e riconoscimenti ottenuti in carriera, le undici pubblicazioni ufficiali e la vicenda che lo lega ai The Blues Brothers: Jon Belushi e Dan Aykroyd debbono a lui il loro ingresso nel fantasmagorico mondo del blues, a seguito di un incontro che l’attore e cantante chicagoano ma di origini albanesi ebbe con Curtis nell’ottobre del 1977, in un hotel di Eugene, Oregon. Jake & Elwood Blues dimostrarono eterna riconoscenza a Salgado dedicandogli Briefcase Full Of Blues, il leggendario album pubblicato per conto dell’Atlantic nel novembre del 1978. Quello che emerge in modo dirompente dal profilo umano ed artistico di Salgado, è una innata attitudine alla narrazione in blues di una vita degna dei passaggi più intensi de «La Città e la Metropoli» di Kerouac»: «Sono nato nel 1954 a Eugene, nell’Oregon, una cittadina blue collar in cui la principale occupazione dei lavoratori era quella nell’industria del legno. Fortunatamente c’era anche l’università, che ha garantito nel tempo un tocco di diversità. Nella mia casa si respirava una bella atmosfera: i miei genitori erano due tipi alla moda e avevano una vasta collezione di musica che includeva di tutto: Fats Waller, Meade Lux Louis, Ray Charles, Jimmy Rushing, Anita O’Day, Bix Beiderbecke e Errol Gardner. Come se non bastasse anche mio fratello e mia sorella, più grandi di me, hanno dato il loro contributo facendomi appassionare al soul e al blues di Wilson Pickett e Muddy Waters. Anche con i concerti dal vivo..ricordo distintamente di aver assistito ad uno spettacolo di Count Basie quando avevo tredici anni e sinceramente, non lo dimenticherò mai! Rammento che nella band suonavano gente come Rufus”Speedy” Jones alla batteria, Walter Page il contrabbasso e Freddy Green alla chitarra. Ai fiati c’erano dei musicisti eccellenti come Eddie “Lockjaw” Davis e Frank Foster. Come cantante, la scelta di Count Basie era caduta su una grande voce jazz, quella di Leon Thomas. Eh sì, è stato un momento che mi ha davvero cambiato la vita».

Sono nato nel 1954 a Eugene, nell’Oregon, una cittadina blue collar in cui la principale occupazione dei lavoratori era quella nell’industria del legno. Fortunatamente c’era anche l’università, che ha garantito nel tempo un tocco di diversità.

HA IL SUO FASCINO immaginare un giovanissimo Salgado innamorarsi della musica african american grazie ad un Count Basie And His Orchestra ancora in forma, in quell’anno di grazia, il 1967, in cui pubblicò l’album Basie’s Beat, dove brillavano brani come Frankie And Johnny e I Got Rhythm che certamente hanno avuto un peso considerevole nella fantasia adolescenziale di Curtis. Come accadde ulteriormente qualche anno dopo: «Anche l’università è stata fondamentale, si studiava blues e jazz. Avevano un forum culturale per gli studenti che ha visto la presenza di Jimmy Smith con Kenny Burrell e Stanley Turrentine. E i maestri del genere: Son House, Johnny Shines e leggende del Chicago Blues come Walter Horton, Lafayette Leake, Clifton James e il grande Willie Dixon. Alcune di queste persone le ho ospitate nel mio appartamento, parlo di Clifton Chenier e Otis Rush».

QUESTIONE di opportunità, stimoli culturali e intuizioni in famiglia: «È stata mia madre a scegliere l’armonica per me. Ho iniziato a prendere lezioni di chitarra a tredici anni, ma l’insegnante non era paziente, si arrabbiava se non capivo bene la lezione e mi avrebbe preso a calci. Credimi, non è stato incoraggiante, ma nel frattempo mio fratello e mia sorella stavano portando a casa ogni tipo di musica interessante. Uno di questi è stata la prima registrazione della Paul Butterfield Blues Band. Quel disco ha avuto un’enorme influenza su di me. E mia madre, notando il mio interesse per Butterfield, ha portato a casa un libro intitolato «Blues Harp: An Instruction Method for Playing the Blues Harmonica» di Tony «Little Sun» Glover e con quello un’armonica Horner. È così che tutto è iniziato».