Friedl vom Gröller, incontri intimi sul filo di uno sguardo
Intervista Artista, fotografa, cineasta e psicoanalista, Filmmaker Festival le dedica un omaggio «Fuori Formato». Dai «Ritratti annuali» a «Max Turnheim», le sue serie fotografiche immortalano il mutamento emotivo
Intervista Artista, fotografa, cineasta e psicoanalista, Filmmaker Festival le dedica un omaggio «Fuori Formato». Dai «Ritratti annuali» a «Max Turnheim», le sue serie fotografiche immortalano il mutamento emotivo
«Mi vedo come un sismografo, filmo per registrare quel che accade», con queste parole Friedl vom Gröller, nata Bondy ma nota anche con il cognome di Kubelka per via del suo matrimonio con il cineasta Peter, ha concluso l’incontro di mercoledì sera a Filmmaker che le ha tributato un omaggio nell’ambito della sezione Fuori formato curata da Tommaso Isabella e realizzata in collaborazione con il Forum Austriaco di Cultura. Un’occasione davvero preziosa per scoprire alcuni esemplari dell’opera di quest’artista nata a Londra nel 1946 e trasferitasi a Berlino Est e poi a Vienna, ispirata dall’Azionismo, divisa tra la pratica fotografica e quella cinematografica, rigorosamente in pellicola e quasi sempre in bianco e nero, ma anche appassionata di poesia e pittrice di acquerelli e tempere. Il programma ha proposto tredici opere relativamente recenti, realizzate tra il 2000 e il 2019: ritratti e autoritratti, situazioni rivelatrici di paure e desideri propri e altrui, momenti dell’essere, «incontri intimi sostenuti sul filo di uno sguardo» in cui l’immagine del soggetto nasce sempre da un gioco di riflessi nell’occhio dell’altro.
Diplomatasi alla Scuola di Arti Grafiche di Vienna, dal 1971 è fotografa professionista, soprattutto nell’ambito della moda anche se ammette: «il mio lavoro non piaceva molto perché tendeva a non raccontare le bugie che venivano richieste nel settore». Nel 1968 inizia a girare i primi film ma smette per dedicarsi soprattutto a progetti fotografici incentrando il suo lavoro sulla temporalità, sulle emozioni e sul corpo attraverso un metodo che privilegia la serialità con opere di grande respiro e portata esistenziale come i Ritratti annuali che sin dal 1972 ogni cinque anni, per un anno intero la impegnano a scattarsi una fotografia al giorno. Per lei, One is not enough, uno scatto non è mai abbastanza, per citare il titolo del volume di sue fotografie a cura di Dietmar Schwärzier, perché solo nella serie, afferma, si può cogliere il mutamento emotivo che si produce nel soggetto durante una sessione fotografica.
Ispirata tanto da Nadar quanto da Eadweard Muybridge, Friedl vom Gröller porta la serialità anche nel suo cinema come dimostra Max Turnheim: 44 minuti di immagini in 16 millimetri girate tra il 2002 e il 2019, una sequenza all’anno di sguardi fissi in camera per un arco di vita durante il quale il figlio di amici si trasforma da ragazzo in uomo, va a vivere da solo, cambia partner, perde il padre, diventa padre, inizia a lavorare come architetto. Oltre ad essere artista, vom Gröller è anche psicoanalista. In un hotel di Milano, le poniamo alcune domande sulla sua carriera e sui suoi film.
La sua filmografia si dispiega lungo una linea temporale frammentata: c’è una prima fase tra il 1968 e il 1974 poi c’è un lungo vuoto fino a «Peter Kubelka and Jonas Mekas» del 1994 che segna un nuovo inizio. Perché quella lunga pausa?
Il 1974 è l’anno in cui ho incontrato Peter Kubelka. Sono andata a sentire una sua lezione in una galleria d’arte viennese e rimasi molto colpita. Mi sono innamorata di lui anche per quello che diceva nelle sue lezioni che mi aprivano un nuovo mondo. Continuavo a pensarmi come fotografa che ogni tanto faceva film ma quando andai con Peter a San Francisco e conobbi i Kuchar, Anger, Brakhage e tutti gli altri mi resi conto di non sapere nulla. Sentivo di non poter filmare senza conoscere a fondo la pratica. Ovviamente quell’ambito era anche molto misogino, c’erano pochi esempi di donne da seguire in quel mondo dominato da uomini. Inoltre, Peter era molto preoccupato dall’aspetto economico, temeva che fare film mi avrebbe portato alla rovina. Così smisi finché non mi sentii abbastanza competente da ricominciare.
Che ricordo ha di Jonas Mekas?
La prima volta che vidi i film di Mekas non mi piacquero e non capivo il suo successo. Però ammiravo il suo modo di vivere, la sua determinazione. Era poverissimo e alle feste con Warhol, Lennon e Ono, tutti si domandavano chi fosse quello straccione che filmava. Ammiravo la sua capacità di persistere nonostante le difficoltà. Portava la sua Bolex in una borsa di tela spessa che gli permetteva di tirarla fuori all’istante se vedeva qualcosa che voleva filmare. Questa immediatezza e indipendenza mi ha ispirata. Poi, quando ho deciso di rivolgere l’obiettivo verso di me, l’esempio di Mekas che non aveva soldi, tempo, né produttore ma voleva fare cinema e quindi filmava la propria vita fu importante.
Nei sui autoritratti lei si mostra in modo poco lusinghiero, con buchi nelle mutande, senza dentiera perché?
Io soffro nel vedere quelle immagini e nel mostrarle agli altri ma è come se pensassi che mostrandomi così, facendo del male a me stessa, gli altri non mi possono fare del male.
C’è un gesto che mi ha molto colpito in «Warum es sich zu leben lohnt», mentre lei è sotto i ferri del dentista con la bocca aperta e lui procede all’estrazione, in primo piano si vede la sua mano che aziona l’otturatore della cinepresa, in quella mano c’è una specie di tensione tra controllo e impossibilità di controllo, è così?
Mi sono filmata sulla poltrona del dentista perché ero curiosa di vedermi in quella circostanza, osservarmi da fuori in una situazione di passività, che le persone masochiste possono trovare piacevole. Sapevo che la luce era propizia alla ripresa e soprattutto volevo una forma di distrazione dall’operazione dolorosa e castrante che stavo subendo.
La morte è sempre presente nel suo lavoro e alla fine di «Winter in Paris» lei abbraccia e bacia qualcuno che porta una maschera della morte calata sul viso, è un modo di esorcizzarla? Di accoglierla?
Per molti anni ho avuto tendenze suicide e il suicidio era un’esperienza molto presente nella cerchia di artisti viennesi che frequentavo, era una conseguenza dell’esperienza della guerra ma anche del clima di diniego e di convivenza forzata tra vittime e carnefici dopo la guerra. Winter mostra la fragilità della vita ma quel che accade nei miei film è spesso spontaneo e inconsapevole. Mio marito aveva quella maschera, gliel’ho fatta indossare, io mi sono messa un bel vestito di seta e l’ho baciato. Nei miei film non controllo tutto, creo delle situazioni e lascio che le cose accadano. Come mi piace dire, «give chance a chance».
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