Alla sua morte nel luglio del 1954, nella stanza accogliente della Casa Azul, Frida Kalho aveva sul comodino un’edizione delle Foglie d’erba di Walt Whitman: un volume, ricordato con passione nell’epistolario della pittrice, che contiene il lirico elenco del Poem of Faces e la sua pausa sommessa sui volti degli artisti, visi puri, stravaganti, luminosi e interroganti, aperti al dialogo con l’interlocutore empatico, rivolti inesorabili allo sguardo del passante distratto.
Fa bene Claire Wilcox, nel catalogo della mostra Frida Kahlo: Appearances Can Be Deceiving, fino al 12 maggio al Brooklyn Museum (e già passata al V&A di Londra), a menzionare un dettaglio all’apparenza tanto occasionale, trascurato perfino dalla biografia di culto di Hayden Herrera, il fracassante successo editoriale di Harper & Row apparso ormai più di trent’anni fa; perché non si può non ripeterselo: il nodo centrale per ogni evento costruito attorno alla carriera della Kalho – specialmente se ideato per una fruizione generalista, estranea al circuito degli addetti ai lavori – è innanzitutto la domanda su quanto un progetto curatoriale possa tradursi in un quesito inatteso, in nuovi interrogativi offerti al pubblico ampio degli spettatori.
Un articolo pionieristico di Oriana Baddeley, pubblicato nel 1991, intravedeva già il rischio di una mummificazione dell’immagine di Frida. Da una parte sottolineava la crescente difficoltà – alla luce della stessa riscoperta internazionale – nel separare una coinvolgente biografia dalla valutazione critica della sua oeuvre; dall’altra la Baddeley individuava nelle mises flamboyantes della pittrice una delle cause legate al fraintendimento diffuso nelle letture più vulgate, quello cioè propenso a tradurre col ricorso al suo esempio l’«arte dell’esprimere se stessi» in un’attitudine corsiva a considerare l’«espressione di sé» in quanto arte; un ribaltamento ottenuto evidenziando nell’iconografia della Kalho piuttosto il riflesso compulsivo di un ego ‘narcisistico’ che l’efficace simbolizzazione di un discorso politico e culturale sofisticato e coerente.
L’intervento – ancora lontano il cereo biopic diretto da Julie Taymor (protagonista il make-up pilifero di Salma Hayek) – non si limitava a rintracciare nelle pagine di noti fashion magazines, da «Elle» a «Vogue», i passaggi inevitabili di un tale processo tassidermico; al contrario mirava a offrire, con acume preveggente, alcuni strumenti per superare l’impasse ermeneutica, concentrando l’attenzione su opere come il dechirichiano Allá cuelga mi vestido o Nueva York (del 1933), o il fantasmatico Suicidio de Dororthy Hale (risalente al 1939), o il testamentario Las dos Fridas (anch’esso ’39), impostesi – e non a caso – al dibattito dei decenni a venire. La studiosa sottolineava cioè la necessaria, lampante dialettica fra un look personalissimo, artefatto e severo, e l’universo figurativo di una pittrice ambiziosa, ricollegando ai poli di una simile dicotomia la produzione allogena di scatti e video, in primis il corpus in temerario technicolor costituito dal fotografo Nickolas Muray.
Pur nella sua lungimiranza, la Baddeley non arrivava tuttavia a indovinare la ricchezza di un giacimento sepolto nella casa-museo di Città del Messico, un tesoro di cui gli specialisti erano da tempo avvertiti ma del quale è stato possibile inventariare l’importanza solo nel 2004, quando è stato finalmente autorizzato l’accesso alla toeletta di Frida, impenetrabile sin dal ’54. L’ambiente venne infatti sigillato per volontà di Diego Rivera subito dopo la scomparsa della moglie, al tempo in cui l’uomo aveva deciso di ammassarvi i beni sfuggiti alla generosità dei doni finali e degli altrettanto estremi saccheggi: sono così ricomparsi dipinti e libri, album e appunti; ma soprattutto è tornata alla luce la raccolta straordinaria di abiti e gioielli, di cosmetici e calzature, insieme alla dolorosa collezione di corsetti e strumenti ortopedici, gessi e medicinali, sedimentatasi in disordine negli anni vivissimi di un’esistenza piena.
Un simile ritrovamento si è subito travasato in una pubblicazione di rilievo, il bel catalogo di scatti Self-portrait in a velvet dress, a cura di Carlos Philipps Olmedo (insieme ad altri autori); ma, pure rispetto a quest’uscita, si dimostra opportuna la scelta odierna di esporre e di ambientare il patrimonio straordinario di quel fondo domestico. Il precedente volume infatti, nell’accogliere un apparato critico cospicuo, non poteva che indulgere nell’idea ‘religiosa’ ormai associata alla silhouette della Kalho, offrendone gli abiti in tavole composite e raggelate, quasi nella forma di reliquie sante: prova ne è la copertina che include su uno sfondo funebre, stropicciati e compressi, due capi esemplari del suo guardaroba, un enagua e un huipil, elementi desunti dal costume delle matrone di Tehuantepec, il distretto nello stato di Oaxaca da cui proveniva una parte della famiglia dell’artista.
Il percorso importato da Londra a New York, su un’idea della Wilcox e di Circe Henestrosa, si propone di evitare un rischio siffatto. Lo fa stabilendo un’archeologia complessa per le predilezioni vestimentarie della pittrice, per quelle opzioni che la mostra riconduce con efficacia all’etichetta di «aesthetic attitude toward her dress», attribuitale dalla testimonianza di Lucille Blanch. Le opere esposte documentano fino a che punto tale sensibilità si radicasse dapprincipio in un retaggio familiare (in particolare nella discendenza materna, per metà india), trovando poi un punto di consistenza nel primo viaggio americano, a San Francisco sul 1930, quando il confronto con l’alterità gringa concesse a Frida di mettere a fuoco la propria mexicanidad (addizionata a elementi eterogeni, come un certo éclat orientalista nutrito nella metropoli californiana, lungo le strade di Chinatown). Non solo: l’evento ricontestualizza quest’inclinazione in un ampio panorama storico, esaltando il ruolo avanguardista rivestito da altre figure celebri nell’adozione di un abbigliamento tradizionale, fra queste Alfa Ríos Henestrosa o María Izquierdo, specchi di carne per le ricerche antropologiche condotte da intellettuali sul tipo di Miguel Covarrubias.
Ancora più che simili apparati, costruiti attraverso un collage colto di immagini e testi, serve poi allo scopo la presenza degli abiti, raccolti nell’ultima sala fra quelle messe a disposizione al pian terreno del Brooklyn Museum: una sequenza, pausata e vivace, di sobri manichini (solo astrattamente allusivi) all’interno della quale i singoli capi si ricompongono in un arcobaleno squillante di assonanze cromatiche, senza rispettare il canone noto della ricca galleria di ritratti (e autoritratti) kalhiani. Invano si ricerca infatti una corrispondenza esatta fra foto e vestiti, fra dipinti e abbinamenti in mostra: una decisione che spinge il visitatore a considerare la raffinata arbitrarietà di un’accoppiata, la disciplina quotidiana alla base di una predilezione passeggera. Si respira aria attorno a Frida, alle sue ampie gonne, ai camicioni aperti sulle maniche, alle geometrie artificiate di una sartorialità casalinga, intese per ridisegnare un corpo tormentato dalla sofferenza. Si contano le macchie di colore sulle bluse confortevoli, si riconoscono le bruciature di sigaretta lungo gli orli ricamati, si avverte quasi l’odore acre del sudore, ingiallito ai bordi delle ingessature policrome; e così, paradossalmente, sono proprio le tracce di vita a transustanziare la biografia dell’artista, suggerendo di guardare con nuova freschezza al suo estro creativo, ribelle ai confini di una tela e radicato in un profondo avvertimento dell’esistente.