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Fremiti di zitella chez Balzac

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La signora Cormon Mai tradotto prima, esce "La signorina Cormon", romanzo prediletto da Honoré de Balzac, che vi ritrae un triangolo amoroso sullo sfondo della provincia francese attardata nei vecchi tempi

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 22 marzo 2015

Dell’importanza della Signorina Cormon era consapevole lo stesso Balzac, che lo definì «una delle mie cose migliori»: del resto, il romanzo affascinò Marcel Proust e attirò l’attenzione di un grande critico come Erich Auerbach, che quando in Mimesis si concentra sullo «spirito individualizzante e atmosferico dello storicismo» di Balzac, cita in proposito proprio una frase della Signorina Cormon: «le epoche stingono sugli uomini che le attraversano». Del romanzo si occuparono, dedicandogli attente analisi, critici come Fredric Jameson, che nell’Inconscio politico ne ha dato un’interpretazione marxista, e Philippe Hamon, che ne ha parlato a proposito della descrizione e dell’ironia, ma anche filologhi specialisti come Philippe Berthier, Stéphane Vauchon e Nicole Mozet che hanno dedicato al romanzo di Balzac scrupolose cure filologiche.

Ha fatto dunque benissimo Sellerio ad accogliere quella che è la prima traduzione italiana in assoluto dell’importante romanzo di Honoré de Balzac La signorina Cormon (versione molto rigorosa e scorrevole di Francesco Monciatti, pp. 474, euro 14,00) il cui titolo originale è La Vieille fille, letteralmente «La zitella», che esce accompagnato da una sapiente, dettagliata postfazione di Pierluigi Pellini – il quale nella postfazione a questa edizione italiana, di cui è stato promotore, non esita a definirlo «un capolavoro del romanzo moderno» – e da un meticoloso apparato di commento, che non disturba la lettura distesa del testo, perché relegato in fondo al volume (sebbene il piccolo formato tascabile renda scomoda la consultazione dell’ampio e utilissimo apparato delle note).

Tradurre Balzac, contrariamente a quanto i lettori superficiali potrebbero pensare, non è impresa facile e questo testo risulta particolarmente arduo da rendere in italiano, per i frequentissimi doppi sensi, le molte allusioni ironiche, la scelta sistematica dell’ambiguità semantica, a cominciare dal nome stesso della protagonista, che non ha niente a che vedere con la cittadina friulana-slovena di Cormon, ma è quasi sicuramente anagramma fonico di Mon corps, il mio corpo: un corpo sgraziato, quello di Rose-Marie-Victoire, carnoso e abbondante, tenuto sotto controllo dalle pratiche religiose, dagli occhi vigili e pettegoli dei concittadini e dai consigli del direttore spirituale, ma percorso da fremiti, sconvolgimenti notturni e desideri d’amore (che saranno destinati alla frustrazione e a un sostanziale zitellaggio).

Il grande tema di fondo è la vita di provincia, indagata con spirito critico, spesso caustico e il punto di vista del narratore è quello del parigino, in una dialettica tipicamente francese: grande capitale vivace, moderna, brillante (e corrotta) versus provincia addormentata, immobile, stolidamente conservatrice (e dimentica delle antiche virtù). Siamo nella città di Alençon, in Bretagna, e l’occhio del romanziere ne mette sistematicamente in rilievo tutti gli aspetti, sia quelli di facciata sia quelli che si nascondono alle apparenze: rigida classificazione dei diversi strati sociali e delle loro gerarchie, accumulo di oggetti e memorie del passato (e segreta speranza di trovare in qualche ripostiglio un tesoro nascosto dagli antenati), culto ossessivo del cibo e del nutrimento (mentre a Parigi si mangia in punta di forchetta), centralità del denaro, considerato come sterile accumulo e non come circolazione della ricchezza, mania dell’ordine perseguita più per non aver altro da fare che per vocazione naturale, «crassa indifferenza verso il comfort professata con orgoglio».

Nella casa della signorina Cormon, che è al centro della vicenda ed è descritta minutamente in ogni sua parte, nulla è effimero, tutto appare eterno: vi si respira «l’aria della vecchia, inalterabile provincia» e a un certo punto il narratore commenta, con largo usa dell’ironia e di quella che è stata chiamata la prospettiva per incongruenza: «Certa gente, che parla molto di poesia senza capirci nulla, blatera contro i costumi della provincia; però, prendetevi la fronte con la mano sinistra, appoggiate un piede sull’alare del camino, posate il gomito sul ginocchio (la posa, osserva Pellini, è volutamente e ironicamente romantica) poi, se siete entrato in sintonia con l’insieme dolce e uniforme costituito da questo paesaggio, da questa dimora e dai suoi interni, dalla compagnia e dai suoi interessi ingigantiti dalla pochezza dello spirito, come l’oro battuto tra i fogli di pergamena, chiedetevi: che cos’è l’umana esistenza? Sforzatevi di giudicare tra colui che ha scolpito anatre tra gli obelischi egiziani e colui che ha giocato a boston per vent’anni insieme a du Busquier, al signor di Valois, alla signorina Cormon, al presidente del tribunale, al procuratore del re, al reverendo di Sponde, alla signora Granson, e a tutti quanti? Se il ripetersi esatto e quotidiano dei soliti passi su uno stesso sentiero non è la felicità, le somiglia così tanto che le persone condotte dai turbini di una vita frenetica a riflettere sui benefici della quiete diranno che questa era la felicità».

In questo passo sono nominati tutti i personaggi principali della vicenda, eccetto due: la «casta» Susanna, furba e provocante come l’omonimo personaggio biblico che, dopo aver giocato un bel tiro agli uomini della compagnia, se ne è già partita alla volta di Parigi, lontano dalla provincia, per fare la vita lussuosa della prostituta d’alto bordo, e il giovane idealista, romantico, liberale e aspirante scrittore Athanase Granson, innamorato della signorina Cormon, destinato a essere escluso da quella apparente «felicità» e finire suicida.

Al centro della vicenda c’è quindi il triangolo composto dalla signorina Cormon e dai due aspiranti alla sua mano, fra i quali lei è destinata a fare la scelta sbagliata sposando quello che finirà per introdurre, nella commedia della vita di provincia, i temi drammatici della fortuna materiale, spregiudicata e pacchiana della borghesia in ascesa, dell’infelicità, anche sessuale, della protagonista e dello svuotamento del maniacale perseguimento della felicità consentito dalla vita di provincia: il matrimonio.

I tre personaggi sono, come ha giustamente sostenuto la critica più attenta e come spiega efficacemente Pellini nella sua postfazione, al tempo stesso realistici e allegorici. Ciascuno di loro rappresenta e incarna un’epoca storica: l’ancien régime (l’aristocratico decaduto signor di Valois), l’impero (il borghese sicuro di sé du Busquier), la Restaurazione (la signorina Cormon). Balzac descrive con grande attenzione e perizia il loro aspetto fisico, l’abbigliamento, le abitudini di vita, i discorsi, i loro tic nervosi, le loro azioni e, accompagnandoli con le metafore appropriate, costruisce al tempo stesso dei personaggi che il lettore impara a conoscere e le posizioni storico-ideali che incarnano. Ogni dettaglio (e sarà questo il grande insegnamento di Balzac per Dickens e Tolstoj), ogni minimo particolare ha un significato sicuro e profondo, è un investimento semantico. Le descrizioni sono straordinarie. Il naso «prodigioso» del signor di Valois divide il suo volto pallido in due parti che danno l’impressione di non conoscersi fra loro e diventa il simbolo della doppiezza della sua vita, fra esteriorità formale e interne ossessioni, addirittura delle due fasi in cui essa si svolge. Il parrucchino che nasconde (non sempre, purtroppo) la calvizie del du Busquier, rivela che sotto i suoi modi prepotenti e i desideri spregiudicati di affermazione sociale sta una reale (e sessuale) impotenza. Basti, a proposito di descrizione, dare l’esempio di quella dettagliata che accompagna l’entrata in scena della signorina Cormon.

È un ritratto straordinario, che va contro tutte le convenzioni, e parte, diversamente dal solito, dai piedi: «I piedi dell’ereditiera erano grandi e piatti; la gamba, che spesso mostrava quando, senza alcuna malizia, sollevava il vestito dopo la pioggia, uscendo di casa o da Saint-Léonard, non poteva esser presa per una gamba di donna. Era una gamba nervosa, dal polpaccio piccolo, duro e rilevato, come quello di un marinaio». Quale altro scrittore avrebbe scelto di puntare l’obiettivo sulle gambe della povera signorina Cormon, per farci conoscere il suo carattere e al tempo stesso per rappresentare l’apparente solidità e al tempo stesso la inevitabile fragilità della Restaurazione?

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