Nel programma complessivamente appassionante di quest’edizione del Cinema Ritrovato si segnala la particolare intensità del suo jolly, ovvero la programmazione del Cinema Jolly che riunisce tre rassegne memorabili che interagiscono con quella dedicata al grande Peter Lorre nel contiguo Cinema Arlecchino. Come quella dell’attore e occasionalmente regista tedesco poi inseritosi nel cinema americano, sono rassegne all’insegna dei percorsi apolidi, che travolgono anche l’illusione di aver già capito cosa sia stata la storia del cinema. Due di esse, la personale Hugo Fregonese e la piccola ma straordinaria rassegna di film rari iraniani, sono curate dall’iraniano della diaspora Ehsan Khoshbakht, che già per le passate edizioni del festival alternò personali dedicate a John M. Stahl, Henry King e altri massimi cineasti americani con la riscoperta di quel momento del cinema iraniano che precede la rivoluzione islamica e che contiene tre cineasti di livello assoluto: Forugh Farrokhzad, Ebrahim Golestan, Sohrab Shahid Saless. Sono, insieme a Ovanessian e Karimi, i cineasti che tornano quest’anno con nuovi ritrovamenti (lei, Forugh, solo come montatrice del cortometraggio del compagno Golestan che per la prima volta si vedrà in copia 35mm con l’originale voce in farsi, mentre del sopravvissuto e oggi centenario Golestan si vedrà anche un film-incontro con Godard, e di Shahid Saless un film dall’esilio tedesco anni 70).

La terza rassegna è curata dal serbo residente in Scozia Mina Radovic, offre 8 lungometraggi e 3 cortometraggi jugoslavi tra anni 50 e 60, e costituisce il più bel ritorno delle nuove generazioni post-jugoslave al momento più alto del loro cinema, quello che poco dopo il crollo della Jugoslavia proponemmo nell’ampia, triennale rassegna per Alpe Adria Cinema (ora Trieste Film Festival), con un prolungamento balcanico per La Biennale di Venezia e una purtroppo mancata retrospettiva Makavejev per il Torino Film Festival data l’interruzione della direzione Turigliatto-D’Agnolo Vallan. In Serbia, in Croazia, in Slovenia, in Bosnia ci si accorse allora che questo era lo sguardo più rivelatore sul loro cinema, e il Subversive Film Festival di Zagabria offrì a chi scrive una selezione riprendente quelle triestine e veneziane. Ora Radovic parte da quelle intuizioni, coglie la continuità-frattura tra anni 50 e 60 che purtroppo divenne frattura tout-court con la repressione degli anni 70, preludio alla disintegrazione successiva.

Tra le tre rassegne, geograficamente così incomunicanti, vi saranno echi magnifici. Se nel cinema di Fregonese ritornano momenti di esplosione, di macchine che ansimano (come nello stupendo Blowing Wild che divenne in Italia più elegiacamente Ballata selvaggia), di Marsiglia che brucia nell’apocalissi nazista in Seven Thunders (come in una Cartagine in fiamme galloniana), della stessa pellicola che brucia e distrugge nel suo film italiano I girovaghi, sarà impossibile non trovarne un’eco nel film di Golestan (montato da Farrokhzad) sui pozzi petroliferi come illusione della modernità persiana, e nello stupendo dittico serbo, Zenica di Stefanovic e Zivanovic (protagonista una giovane Gordana Miletic che poi sposò un altro regista di catastrofi storiche, Giuseppe De Santis) e L’uomo non è un uccello di Makavejev, suo primo lungometraggio, vertice di «nerezza» nel cinema d’ogni tempo.

Fregonese, cittadino argentino di origini italiane, trevigiane, è un cineasta unico. I suoi 10 film americani, realizzati nei 5 anni dal 1950 al 1954, sono in fondo i suoi unici capolavori (a Bologna si vedranno gli 8 più belli, insieme a due film inglesi e a uno argentino), ma sono talmente belli, si spostano così imprevedibilmente nella stessa storia e geografia americana (tra il Messico del primo e il Canadà del penultimo) da rendere Fregonese uno dei massimi cineasti americani, il più vicino in certi momenti a John Ford, e insieme il più contiguo a quel gruppo «macmahoniano» che riunisce i grandi apolidi Tourneur, Ulmer, Ludwig, Eichhorn (con la scheggia Waszynski-Cottafavi).

Ma se Tourneur e Ulmer mantengono una forza anche nei film minori e mancati, Fregonese ha una strana determinatezza intrecciata con lo scacco, il che lo rende anche il cineasta più vicino a Orson Welles. Ed ecco allora che i suoi film argentini (persino il più bello, Donde mueren las palabras) sembrano fatti sognando quelli statunitensi, e i tardi film italiani, inglesi, tedeschi, spagnoli ne appaiono impossibili epifanie. Lo storico spagnolo Carlos Aguilar ha molto ben ricostruito l’opera del regista nel recente volume pubblicato a Madrid. Anche se nella scelta dei picchi massimi concordiamo piuttosto con Jacques Lourcelles che nel suo Dictionnaire presceglie i primi tre film americani (One Way Street, Saddle Tramp, Apache Drums) e Man in the Attic, terzo remake di The Lodger di Hitchcock. Questo noir è sorprendentemente anche uno dei massimi film musicali, con due numeri magnifici di Constance Smith e la sequenza della prostituta che viene uccisa mentre canta con passione una canzone irlandese, momento tra i più belli di tutta la storia del cinema, e che si collega anche al minore Mark of the Renegade in cui il numero musicale di Cyd Charisse è degno di Minnelli. Ma tutti i 10 film americani sono belli (meno di tutti quello in cui Fregonese credeva di più, My Six Convicts), e ai quattro scelti da Lourcelles aggiungiamo volentieri il pur imperfetto Blowing Wild e soprattutto il penultimo, The Raid, indubbiamente la più feroce storia della guerra civile americana e dunque dell’America.

Colpisce che dei 10 film ben 6 (tra cui i due primi e i due ultimi) siano del produttore Leonard Goldstein, prima all’Universal, poi alla Fox e alla United Artists, e l’ultimo è per il produttore postumo. Egli appare per Fregonese un vero incontro del destino, alla pari di quello più fugace con Val Lewron, di cui Apache Drums è l’ultimo film, capolavoro degno di quelli che affidò a Tourneur, Wise e Robson alla RKO. Questo western come bestiario nasce nell’affascinante «americana» della Universal, mentre tra i progetti mancati di Lewton con Fregonese My Six Convicts si muta da una sorta di seguito di Bedlam in un film civile prodotto da Stanley Kramer.

Sorprendenti poi le presenze d’attrice meno stellari (anche se Barbara Stanwyck, Ruth Roman e Anne Bancroft sono alla pari magnifiche), ovvero la tenera Marta Toren del primo film americano e la Wanda Hendrix del secondo, di cui la fugace Bridget Carr nel quarto è una vera epifania: appaiono entrambe scoprendo il volto da una coperta, folgorazioni assolute. Come Faith Domergue nella breve apparizione di Apenas un delincuente, nella vita moglie di Fregonese, nel suo cinema poi assente ma «autrice» di una bella filmografia parallela, con una convergenza nella toccante foto anonima del loro tardo reincontro (pubblicata da Aguilar), che per la sua ambientazione aeroportuale è degna dell’ultimo Matarazzo: Amore mio.