Fredric Jameson, prove acrobatiche di critica politica: focus su Benjamin
Norman Bluhm, «Erythea», 1971
Alias Domenica

Fredric Jameson, prove acrobatiche di critica politica: focus su Benjamin

Maestri discussi Dopo cinquant’anni di affiancamento con l’autore dei «Passages», il critico marxista mette insieme un «Dossier», immune dalla seduzione del frammento: ora da Treccani

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 29 maggio 2022

La distanza, temporale e intellettuale, dalla quale Walter Benjamin tallona Baudelaire è almeno pari a quella da cui Fredric Jameson si tiene al loro inseguimento. La pista corre tra moderno e postmoderno e perimetra il terreno di elezione del lavoro analitico svolto dal critico americano.

Personificazione statunitense della teoria critica europea – qualcuno dice fuori tempo massimo – Jameson ha applicato il suo marxismo eterodosso all’analisi del postmoderno fissandone l’immagine influente di età dell’esaurimento del moderno e di specchio negativo del tardo capitalismo.

Lungo questa traiettoria ha incontrato per tempo il lavoro precorritore di Benjamin, ma solo dopo un affiancamento di oltre cinquant’anni anni ne presenta ora un rilievo complessivo con il titolo Dossier Benjamin (a cura di Massimo Palma, traduzione di Flavia Gasperetti, Treccani, pp. 373, € 26,00). I Benjamin files di Fredric Jameson attraversano la sua intera produzione – libri finiti o progettati, incompiuti, appunti, articoli, recensioni, testi radiofonici, versioni alternative di opere in progress, diari di viaggio, note per giornali locali – quella produzione che alla comparsa delle Opere complete nei primi anni Settanta è precipitata come un immenso meteorite sulle ordinate selezioni curate nell’immediato dopoguerra da Arendt e Adorno/Scholem. «In sintesi – chiosa Jameson – meno marxismo possibile». Ondate di ricezione entusiasta hanno poi fatto di Benjamin uno degli autori più lavorati e citati del secolo, a proposito e no.
Benjamin è «fin troppo facile da leggere» avverte Jameson, promettendo di scansare le letture convenzionali e oltremodo affermative che lo hanno irrigidito – fra le altre – nella postura di flâneur metropolitano o di profeta dei nuovi media. «Più prudente fare un elenco delle sue avversioni che attribuirgli formule positive»: possiede un suo canone, ma coincide con una «ostinata anti-canonicità» votata all’eccentrico e al marginale.

Occorre, in primis, non farsi prendere dalla seduzione del frammento. Si veda Strada a senso unico, «l’unico vero libro di Benjamin»: frasi dall’aspetto frammentario sono invece stanze complete, episodi a sé, monadi capaci di riflettere la totalità del mondo. L’apparenza di frammento è dovuta alla pratica intenzionale dell’interruzione che riflette la discontinuità logica e cronologica dell’esperienza metropolitana. Nate sotto il dominio della strada, queste «frasi spaziali» finiscono sul taccuino senza essere sottoposte a un preventivo lavoro di astrazione, trattenendo invece l’impronta dell’andatura corporea lungo le strade urbane. Veri e propri agenti disorientanti, queste frasi violentano l’ordinaria percezione del lettore per forzarla a una capacità di dettaglio più acuta e più estesa.

Virtuoso citazionista
Condividono questa segreta violenza pedagogica le citazioni, di cui Benjamin è principe e virtuoso: «nel mio lavoro sono come briganti ai bordi della strada che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante». Agli occhi di Jameson sono fatti di citazioni travestite da discorso anche i suoi lavori più ambiziosi, non solo i Passages di Parigi, rimasto una «collezione di ritagli», ma persino il testo sul Dramma barocco: «poco più che un tessuto di citazioni, allineate in forma di parata». In omaggio alla ricerca di una nuova «oggettività», e a dispetto di Adorno, Benjamin ha peraltro coltivato lungamente il progetto di scrivere un libro composto solo e unicamente di citazioni: «Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare».

Se Jameson indugia su frasi e citazioni non è solo perché fungono da indici dello stile di Benjamin, ma perché gli consentono di aprire a ventaglio il catalogo delle sue «avversioni» – «all’idea di progresso, alla psicologia, alla storia dell’arte, all’estetizzazione, all’estetica stessa» – per passarle al vaglio del proprio arsenale critico. Un arsenale che si vuole eminentemente politico.

Primaria e in certo modo sintetica è l’avversione nei confronti di tutto quanto fa individuo, a cominciare dalla psicologia con la sua vocazione a fornire spiegazioni soggettivanti. Su questo terreno Benjamin non supera la prova a pieni voti: fraterno del surrealismo, trascrive i propri sogni, coltiva l’interesse per l’occulto e la grafologia, soggiorna nell’onirico e nella fantasmagoria più di quanto il marxismo di Jameson sia disposto a concedergli.

Viene messo invece sotto lente di ingrandimento l’accurato lavoro di cancellazione della prima persona autobiografica attestato dal confronto «scioccante» tra il Diario moscovita – «disperato diario privato» – e il catalogo di impressioni neutrali che costituisce il saggio finale su Mosca, nel quale anche l’amata Asja – la ragione del viaggio – è scomparsa.
Nel trittico dei ritratti di città, dove Napoli racconta di una società dello spettacolo precedente all’individualismo, «Mosca è l’esperienza della lotta per emergere in un futuro post-borghese e post-individualistico, un futuro non necessariamente bello o pittoresco, ma sempre emozionante». Tocca a Berlino occupare lo spazio proprio dell’individualismo, con le sue strade vuote e silenziose dove «il soggetto borghese è impegnato a farsi i fatti suoi».

E Parigi? Qual è il segreto della sua collocazione storica nel passato, come capitale del XIX secolo? «Forse Baudelaire e il suo solitario flâneur che si perde tra la folla sono la rappresentazione perfetta della transizione dalla Francia pre-borghese della vita di strada a una deserta e monumentale Berlino vista con gli occhi di un bambino già condannato al capitalismo».

Jameson riconosce esplicitamente in Baudelaire «l’astro che ha guidato Benjamin nel lavoro di tutta una vita», non solo come poeta e maestro di stile, ma come scrigno di osservazioni e personaggi a cui attinge per trasformare la vita nervosa di Simmel nella Parigi della folla e degli shock.

Baudelaire lo ha anticipato anche nella scoperta del «numero» che riveste in Benjamin il ruolo di categoria cardine, antagonista a «individuo» – sono numero le masse, la produzione di massa, il multiplo, la molteplicità – a partire dal saggio sulla riproducibilità dell’opera d’arte (letto nella sua terza redazione).

L’aura fuori posto
Con una prova critica acrobatica, questo testo famoso viene sottratto all’estetica e alla teoria dei media per essere assegnato interamente alla politica. Jameson vi legge infatti il progetto strategico di «neutralizzare» quelle teorie tradizionali come l’etica e l’estetica che presuppongono il dominio dell’individuo – e sono recuperabili dall’estetizzazione fascista – per sostituirle con le categorie totalmente nuove del numero e delle masse. Al loro interno l’aura non trova posto e l’arte neppure. Ma lo «storico materialista» che di Benjamin è l’alter ego osserva la loro scomparsa senza rimpianti: magari sarà proprio il numero a determinare nuove forme di esperienza e di pensiero. Magari un’aura nuova.

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