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Fratoianni: «Questo luogo non può dirsi un centro di accoglienza»

Fratoianni: «Questo luogo non può dirsi un centro di accoglienza»

Intervista a Nicola Fratoianni La drammatica morte della ragazza ivoriana, purtroppo, dimostra ciò che avevamo denunciato ripetutamente nei mesi scorsi. Cona non è un luogo strutturalmente gestibile in queste condizioni

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 5 gennaio 2017

Due ore abbondanti all’interno dell’ex base missilistica, insieme a Giovanni Paglia (che aspetta sempre dal Viminale risposta all’interrogazione presentata a novembre), e la conferma di una certezza: «Questo luogo si può chiamare in tanti modi, ma è tutto tranne che un posto di accoglienza».

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Nicola Fratoianni, 44 anni, deputato di Sinistra Italiana e ultimo coordinatore di Sel, sintetizza così la visita: «Cona era e resta una bomba ad orologeria, come del resto denunciamo da tempo. È un centro concentrazionario dove sono ammassati 1.400 corpi. Altrettante vite buttate nel nulla, in un posto isolato e catapultato in una micro comunità locale. Profughi senza nessuna relazione con il mondo esterno che sopravvivono spesso senza riscaldamento, uno sopra l’altro in piccoli letti a castello che non concedono spazio nemmeno per camminare, in una condizioni igienica più che discutibile».

Cos’avete documentato all’interno della struttura?
La promiscuità balza agli occhi. Poi i bagni: spesso privi di acqua e la poca che c’è, fredda. Il personale della coop ha detto che si tratta di una situazione eccezionale causata dalle proteste di questi giorni. Ma molti dei migranti con cui abbiamo potuto parlare hanno denunciato una condizione quasi permanente. L’infermeria ospitata in un piccolo container obbliga poi chi ha bisogno di una visita o di farmaci ad una lunga fila all’aperto anche in queste giornate gelide. Insomma, in tanti anni di visite di questo tipo raramente mi è accaduto di vedere situazioni come quelle di Cona.

Formalmente, l’autorizzazione dell’Asl è limitata a 540 ospiti. In realtà sono quasi tre volte tanto…
La storia di Cona è in perfetta sintonia con il disastroso impianto con cui l’Italia si misura da decenni con le migrazioni. Deroghe, adeguamenti in corso d’opera, improvvisazione sono l’unica logica politica di tanti governi perfino diversi politicamente: l’emergenza. Una cultura che produce nuova e permanente emergenza, quando invece si dovrebbe governare il fenomeno con piccoli insediamenti, micro-strutture, implementazione dello Sprar che ha prodotto risultati. E posto che per Cona occorre far luce sui profili di responsabilità, mi pare evidente che si deve chiudere, una volta per tutte, con l’impostazione emergenziale. Come con la legge Bossi-Fini che e da un lato produce irregolarità come condizione inevitabile dei migranti e dall’altro un’emergenza ottimale come grande occasione di speculazione e profitto sulla pelle dei profughi.

Dopo questa visita, qual è l’impegno non solo sul fronte parlamentare?
La drammatica morte della ragazza ivoriana, purtroppo, dimostra ciò che avevamo denunciato ripetutamente nei mesi scorsi. Cona non è un luogo strutturalmente gestibile in queste condizioni: spero che sia fatta piena luce, e non solo dalla magistratura, sulle responsabilità anche gestionali di un simile luogo che annichilisce anche la pessima metafora degli “ospiti” riservata ai profughi. Struttura, dimensione e servizi qui sono assolutamente improponibili. E anche tensioni, rabbia, proteste vanno ascritte alla terribile morte di una giovane ivoriana e alle condizioni di vita tutt’altro che accettabili a Cona. A questo proposito, voglio mandare un messaggio al neo-ministro Minniti che vuole riaprire i Cie in tutte le regioni. È un modello già fallito: i Cie sono luoghi inumani, privi di ogni minima tutela, sono il segno più eclatante di una classe dirigente che non ha appreso nulla dalla storia di questi anni. Se mai, bisogna chiudere Cona e cambiare radicalmente approccio nell’accoglienza dei migranti.

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