Alias Domenica

Fratino, l’americano con Penna

Fratino, l’americano con PennaLouis Fratino, "Indigo Tom", 2020, Berlino, coll. priv.

A Prato, Museo Pecci "Louis Fratino. Satura", a cura di Stefano Collicelli Cagol. La trasparenza usurata dei nudi, la fragilità allarmante di certe presenze, gli adorati oggetti-libro e le vacanze italiane: il pittore classe 1993, stregato dal poeta umbro

Pubblicato 10 giorni faEdizione del 27 ottobre 2024

I versi di Sandro Penna, spesso brevi, mai concettosi, saturi dell’intensità abbagliante di un raggio di sole, sono pieni di ragazzi e di ponti, di alberi e ragazzi, di biciclette, ragazzi e cinema, di ragazzi, di mare, di treni, poi di colline e ancora di ragazzi, di polvere e azzurro, di gioventù, di ragazzi distesi su prati verdi. «“Poeta esclusivo d’amore” / m’hanno chiamato. E forse era vero». Ancora prima, però, i suoi quadri vivi sono atti impavidi di memoria, baluginanti intermittenze del cuore. Lo dice Penna stesso, con determinazione stentorea, sin dall’avvio del suo manifesto senza rime baciate, «la mia poesia più bella» come di frequente s’è dato a ripetere: «La vita… è ricordarsi di un risveglio / triste in un treno all’alba». Contro il trucco di un eterno presente e tuttavia sedotti dal tema del motif, è questo il dispositivo che regala, quasi sempre, alle sue immagini il peso liquido di una liricità densa: «L’insonnia delle rondini. L’amico / quieto a salutarmi alla stazione». La distanza serve così da cannocchiale inverso, nel rimandare l’impressione al passato: nel regalare durata a un istante fugace, assieme lontano ed echeggiante.

Se si abdica a una simile prospettiva, pur solo per schermarsi da un eccesso di commozione, l’esilità del canzoniere perde di rilievo, irrobustendo i contorni delle figure e le linee di paesaggio. Si ha quindi il sospetto che proprio nell’evidenziare l’azione del ricordo, il giovane pittore americano Louis Fratino segua oggi, fedele, la lezione di un maestro omaggiato a più riprese in quadri e disegni; maestro con cui anzi si è perfino confrontato in una serie di illustrazioni in bianco e nero per una smilza antologia, elegantissima, uscita nel 2023 da Nero Editions e che torna di continuo alla mente per l’erotismo intangibile dei suoi dipinti, ritratti in azzurro di corpi dormienti o echi celesti di volti imberbi.

Louis Fratino, “Large self-portrait with glasses”, 2024

Sono utili allo scopo i volumi di sovente in evidenza sulle tele, all’angolo di un tavolo, sui ciottoli di una spiaggia, sul bordo di un lavandino, a completare ‘istantanee’ quotidiane, solo all’apparenza nonchalantes – per Penna è il caso della summa di Tutte le poesie, edita da Garzanti nel 1970 e inserita nel quadro Mimosa, San Cosimato del 2022. Perché da un lato le loro pagine rinviano al lungo intervallo della lettura, di una fruizione distesa su minuti, ore e giorni; dall’altro costituiscono un canone di voci trascorse, riattualizzate da copertine sgualcite, da coste grinzose e nondimeno risonanti da un altrove inattingibile. In questo senso, l’elemento «libro», a tal punto topico per Fratino (ricorrono titoli di Pavese, Buzzati, Mario Mieli e Cavalli), rimpalla, sornione e parodico, l’assenza di «libresco» nei versi candidi del poeta umbro, costruendo quasi un contrappunto voluto. E se in Penna è proprio l’artificio della prise sur le vif a fungere d’accesso verso un sondaggio profondo nel tempo, nei costrutti di Fratino – la cui intimità concentrata riflette innanzitutto la quiete dello studio – è invece una dichiarata sostanza mnemonica a magnificare la fragilità allarmante di certe presenze, la trasparenza usurata dei nudi, la meccanica celeste degli atti d’amore.

Funziona allora assai bene la monografica montata oggi al Pecci da Stefano Collicelli Cagol: Louis Fratino. Satura, a cura di Stefano Collicelli Cagol (fino a 2 febbraio, catalogo Mousse Publishing). È la prima, istituzionale, consacrata al pittore, e il curatore l’ha voluta, per l’appunto, come souvenir di un souvenir, raccogliendo insieme le «cartoline», gli schizzi di quaderno da questi dedicati alle sue vacanze in Italia. Di remote origini molisane, fratino ha infatti preso a frequentare il Bel Paese, e le pigre avventure dell’estate 2019 riverberano a Prato, assieme a quelle di soggiorni diversi, da un bagno all’Isola del Giglio a un lunare Golfo di Genova, da una veduta di Monte Cristo alla spiaggia stellata di Noli. Hanno così la consistenza ordinata delle rievocazioni, la loro stringatezza riassuntiva immagini sul tipo di Ginone del 2024 – che ha tutta l’aria d’una ciurma di pescatori ad Antibes – o Tom in Albisola del 2020, inventario di un lungo soggiorno in Riviera di Ponente, ripetuto par coeur, fitto di delizie, ozio, tentazioni consumate.

Coi luoghi, tuttavia, riemergono sulle tele altri tipi di reminiscenze, quelle che ne legano l’immaginario a tutta una linea d’arte nostrana. Si pensi, in primis, al diafano De Pisis, a cui Fratino è stato pure affiancato all’ultima Biennale di Venezia, in una sala ‘genealogica’ concepita da Adriano Pedrosa secondo assonanze carezzevoli; e poi Mafai e Arturo Martini, Marino Marini e Guttuso, perfino Guglielmo Janni e Costantino Nivola. Il catalogo di mostra sottolinea d’altronde – grazie anche a una bella trouvaille di Chiara Portesine – come auctoritates seguenti non sfuggano alle curiosità rapaci del giovane americano: fra queste troneggia il Pasolini cineasta, dai cui fotogrammi il pittore ha preso spunto per più di un’opera, modello ineludibile per ogni sguardo queer mirante a ricucire una storia personale dell’arte italiana del secolo scorso. Il testo favorito è naturalmente il Decameron che in sé racchiude un’immagine giocosa, naturale del mosaico peninsulare, dalla storia di Ricciardo a quella di Masetto, leggende popolate tutte di nudi innocenti e di un sesso alluso nelle pause di riposo o nel sonno post coitum.

Sorprende semmai che il grande volume pensato per attendere il visitatore a fine percorso (l’ampio formato, insolito, consente limpide riproduzioni a piena pagina di tele e incisioni) non usi con pervicacia maggiore la stratigrafia temporale soggiacente agli interni fratiniani, come utile strumento ermeneutico per leggerne l’ispirazione privata, nel farne la chiave necessaria a entrare nella quieta malinconia distesa sulle sue scene domestiche. Similmente, mi sembra che le nature morte (ad esempio il fiabesco Patrizia Cavalli’s Christmas Table), ben lungi dall’essere testimoni ambigui di fatti mai accaduti, si offrano semmai come reliquie del trascorso, riassemblate dal pennello dell’artista in un’ostensione emblematica, nutrita dai dispositivi della figurazione moderna (vera e propria riuscita, in tal senso, il bellissimo May, del 2020, col suo racconto di barbe tagliate, disperse in resti sottili). Sono questi umori a giustificare la gracilità eloquente, comunicativa delle tele di Prato; e del resto, non è proprio il dato memoriale che, nelle sorti progressive della pittura primonovecentesca, segnala la linea italiana come un’aporia fruttifera, dalla metafisica all’espressionismo romano, propensi, magari per vie divergenti, ad abbandonare la sensazione per il simbolo, l’impressione per l’icona?

Certo, la lingua di Fratino s’è educata nondimeno su altre lezioni, tanto europee quanto statunitensi: ma pure in relazione a un gigante come Picasso, più che la chirurgia cubista risuona nei suoi quadri la solidità del genio mediterraneo, quello abbeveratosi alla nostalgia dell’Antico nel sole meridionale.

Di questo sentimento carico del Tempo, ha parlato d’altronde lo stesso pittore, nella postfazione alla silloge penniana ornata di otto sue litografie, appena un anno fa: «The specificity of Penna’s experience is indisputably relatable. (…). The antique darkness in (his) images place the homosexual experience firmly in the past, which for me is a blessing. (…) Touching a damp stone to make a lithograph as I ruminate on Penna, I think about how I want to caress the figures from history I reference».

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