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Frassineti, iperbole e parodia degli apparati di Stato

Frassineti, iperbole e parodia degli apparati di StatoRenato Rascel nel film «Il cappotto» di Alberto Lattuada, 1952

Scrittori italiani Einaudi ripropone «Misteri dei Ministeri»: il trattato con cui esordì nel 1952 Augusto Frassineti, ex-prigioniero in Africa, militante di Giustizia e Libertà

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 gennaio 2023

Aperto nel maggio del 1945, durò solo un paio d’anni il Ministero della Assistenza postbellica voluto da Emilio Lussu e chiuso da De Gasperi già all’inizio del ’47 in vista della liquidazione dei comunisti e socialisti: chiamato da Lussu, uno dei dirigenti più capaci si ritrovò dalla sera alla mattina non soltanto cacciato ma trasferito ad altro ministero e retrocesso al ruolo di impiegato avventizio. Costui risponde al nome di Augusto Frassineti (1911-1985), ex allievo di Roberto Longhi a Bologna, coscritto nella Guerra mondiale, prigioniero in Africa, militante di Giustizia e Libertà e attivo nella Resistenza: alla cacciata ministeriale, come per contrappasso, segue nel ’52 il suo esordio letterario, Misteri dei Ministeri che Einaudi («Letture», pp. XV- 365, € 21,00) ripropone ora nella terza edizione ne varietur del ’73 a cura di Andrea Gialloreto con una bella prefazione (forse il suo ultimo testo prima della scomparsa) a firma di Paolo Mauri che in proposito parla di una «macchina narrativa potenzialmente infinita». E il sottotitolo è, come si dice, tutto un programma: Il primo trattato di MINISTERIALITÀ GENERALE & COMPARATA arricchito di nuove rilevazioni ipotesi esempi e controprove in tre libri compiutamente ordinato.

Già da questa insegna solennemente esposta in frontespizio si colgono due tra le figure maggiori della retorica che ordisce il trattatello, l’iperbole e la parodia ma non la satira come lo stesso Frassineti forse credeva e con lui la maggioranza dei lettori. Scandito in tre parti, l’insieme realizza una struttura manualistica pure se tra l’una e l’altra parte mutano sia la formulazione della materia sia il décalage linguistico e stilistico: solo l’edizione definitiva ne riunisce le componenti incorniciandole con un canonico artificio del romanzo moderno, quello del manoscritto ritrovato. Chi redige il trattatello afferma di ricevere a cadenza informazioni e materiali da un transfuga e vittima dell’universo ministeriale che si firma, noi diremmo kafkianamente, con iniziali e matricola concentrazionaria, «D. K. 55». La prima parte dello scartafaccio è di natura propriamente teorica e conduce all’estremo le convenzioni e il gergo della «Ministerialità» che Frassineti associa alla condizione umana, sebbene intesa nel suo stadio più depravato e infero. Ne viene data la fenomenologia (per esempio tra «ministeriali attivi e passivi»), così come una casistica cavillosa che procede alla maniera delle Pandette giustinianee, con tanto di esemplificazioni, brocardi, eccezioni mentre l’apparato ministeriale assume progressivamente una fisionomia sinistra, incombendo sull’individuo (il privato cittadino) alla maniera di un cielo tolemaico, invalicabile e nella sua essenza intangibile.

Il fluido che ne olia gli ingranaggi, quasi un’eucarestia spartita fra burocrati, è la «pratica ministeriale», fascicolo di documenti che può essere classificato o come istanza dei subalterni che si rivolgano ad autorità remote e metafisiche o come motu proprio delle autorità medesime che si scaglino dall’alto sulla vita quotidiana degli uomini semplici e inermi. Scrive Frassineti, in una nota a piè di pagina: «Varrebbe la pena, credo, di dedicare una vita allo studio degli sportelli, soprattutto quelli di legno grezzo, di latta o di cartone, oppure semplicemente ritagliati nelle porte, nei muri e nei tramezzi. Dietro di essi, un solo piccolo impiegato che faccia poco o nulla o addirittura non compaia, riesce a immobilizzare centinaia o migliaia di persone, con esiti traumatici di estrema gravità». Sono queste le persone, anonime file di postulanti, i cui annosi e talora verbosi carteggi con l’Amministrazione occupano la parte centrale di Misteri dei Ministeri, letterariamente la più felice, sapida e insolente, nella cui inventiva sbrigliata è riscontrabile un’intersezione con il libello non già di un ex resistente ma di un ex fascista deluso e perciò incarognito, Carlo Emilio Gadda, che redige in parallelo Il primo libro delle Furie, poi nella sua estrema redazione intitolato Eros e Priapo (1967). Ma qui attenzione, perché il sarcasmo e la violenza di Gadda nel manierismo di Frassineti si rivelano invece forme della pietas rerum.

Ricchissimo di documentazione vera, falsa o soltanto verosimile, il capitolo centrale serve a esemplificare la teoria della «Ministerialità». Sono lettere, domande, promemoria, allegati, istanze, rescritti, dossier che Frassineti deduce dalla sua personale esperienza o reinventa a memoria componendo il palinsesto di un’Italia reietta, infelice, rassegnata nella sua mitezza o a volte nella sua protervia. Stesi in una lingua che alterna agli sfondoni del gergo burocratico gli ipercorrettismi dei dialettofoni puri, vi si susseguono biografie della umiliazione e dell’indigenza, storie di disoccupati, di orfani e di vedove, talvolta ai limiti del Bildungsroman come nel caso di «Colasanti Nicola» la cui vita, dove biografia e grafomania coincidono, dà luogo a un pluridecennale romanzo degli incartamenti che in clausola insinua davvero qualcosa di struggente: “(…) i fatti sopraelencati sono stati riportati esclusivamente in omaggio alla verità, quindi solo invoco, in ossequienza alla giustizia ed equità, la mia resurrezione completa come affermazione di umana dignità e competenza». Non c’è bisogno di ricordare, quanto al virtuosismo, che Frassineti ha firmato una stupenda versione del Gargantua e Pantagruele (Sansoni 1980) e, non meno esatta, de Il nipote di Rameau (Einaudi 1984).

In Misteri dei Ministeri, nella parodia del latinorum giuridico che il curatore Gialloreto definisce «repertorio catastale dell’assurdo», si profilano i riflessi di un incubo dove Frassineti non tradisce la minima intenzione di infierire su quei disgraziati perché il suo sentimento è, appunto, di sottaciuta compassione: al di là del cliché satirico (che occupa semmai la zona laterale della sua produzione: vedi i testi teatrali a partire da Il tubo e il cubo, ’67), se un’opera può essergli accostata è il capolavoro coevo del regista Alberto Lattuada, Il cappotto, novella gogoliana che nei bassi del comico sa dissimulare la più austera cupezza.

Come fosse un necessario ristoro o una boccata d’aria in tempi ormai di Guerra fredda, la terza parte rovescia il trattatello che occupa la prima nei modi di una mite Utopia dove si invoca la fuga dal chiuso dei ministeri (vale a dire dal dispotismo della burocrazia, dal militarismo, dal bigottismo) e l’avvento finalmente di una Amministrazione da tenersi all’aperto, in ogni senso. Ne intese il messaggio un fedele lettore, Gianni Celati, che intervistato da Andrea Cortellessa su «il verri» (n. 19, 2002) disse che Misteri dei Ministeri è una perfetta raffigurazione della letteratura, cioè un lavoro di postulanti che chiedono di essere ascoltati; e aggiunse che proprio per questo il libro di Augusto Frassineti, ex ministeriale retrocesso, è così terapeutico.

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