Visioni

Frankie Shaw mamma single e sovversiva a Boston

Frankie Shaw mamma single e sovversiva a BostonFrankie Shaw in una scena di «SMILF»

Televisione Candidata ai Golden Globe, l’attrice è regista e protagonista di «SMILF», una serie targata Showtime. In sei puntate, è un adattamento delle sue personali esperienze

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 22 dicembre 2017
Luca CeladaLOS ANGELES

In questo «anno delle donne» a Hollywood, il personaggio di Bridgette Bird è emblematico delle protagoniste che hanno popolato le storie di un gran numero di film e serie. La «stella» della fiction in sei puntate SMILF è interpretata da Frankie Shaw, l’artista trantesettenne nominata al Golden Globe che è anche sceneggiatrice e regista. Gli incarichi di maggior rilievo come produttrici (quelli di Reese Witherspoon e Nicole Kidman in Big Little Lies, ad esempio o di Mindy Kaling nella sitcom Mindy Project) corrispondono ad ruolo creativo più importante e sono indice del maggior spazio che comincia effettivamente ad essere conquistato dalle donne nel meccanismo produttivo. Vi corrisponde una sensibile evoluzione nella rappresentazione dello sguardo femminile e una gamma di personaggi molto più definiti, da Wonder Woman a Handmaid’s Tale, insieme a una maggiore rappresentazione sullo schermo di tematiche come il desiderio femminile (I Love Dick, Broad City, Crazy Ex Girlfriend per citare alcuni esempi). Anche in SMILF, sulle peripezie tragicomiche, professionali e sentimentali di Bridgette, la farsa deriva, come già avveniva in Girls, da situazioni, spesso imbarazzanti, di sesso. La fiction prodotta da Showtime è adattamento autobiografico delle esperienze della stessa Shaw come attrice single con bimbo a carico (il titolo gioca sul «MILF» – mamme che vorrei scopare – entrato a far parte del linguaggio corrente dopo American Pie). Una tragicommedia autobiografica insomma che non poteva che portare agli inevitabili paragoni con Lena Dunham, anche se con dovute e marcate differenze, dato che al posto delle nevrotiche hipster borghesi di Brooklyn, qui siamo fra i proletari di Southie il quartiere popolare di Boston, archetipo «coatto» con cui si sono in passato cimentati gli «indigeni» Mark Wahlberg, Matt Damon e Ben Affleck (oltre a Di Caprio, Johnny Depp, Christian Bale ed Amy Adams).

Si riconosce nell’accostamento?

Per molti anni ho tentato la strada tradizionale per fare l’attrice, mi sottoponevo a centinaia di provini senza ottenere grandi risultati. Poi, quando ho cominciato a scrivere e a fare le prime regie, tutto è cambiato. Non voglio dire che ogni donna debba provarlo, ma per quanto mi riguarda non sono mai stata così felice come da quando sto dietro a una cinepresa. Quando studiavo cinema a New York non ho mai visto registe, oggi ce ne sono molte di più. Venir paragonata a Lena Dunham mi lusinga, ma SMILF è uno show un po’ differente per come tratta le divisioni di classe e poi, essendo ambientato a Boston inevitabilmente la trama tratta anche temi razziali.

L’idea è nata da un cortometraggio, giusto?

Sì, l’ho girato con 3 mila dollari e nel 2015 è passato a Sundance. Lo scorso autunno ne abbiamo tratto un episodio pilota e oggi abbiamo già finito la prima serie, è stato un turbine. Mio marito – che è uno degli sceneggiatori del programma – proprio l’altro giorno si è girato verso di me e mi ha detto, ‘Frankie ti rendi conto che stai vivendo il tuo sogno, vero?’ Siamo così costantemente impegnati nella produzione che in effetti non avevo avuto modo di pensarci. Ma è così.

Perché quel titolo?

Avevamo molte idee in testa, ma alla fine ho scelto SMILF perché – come sapete – MILF è un termine maschile usato a volte per etichettare alcune donne, «alcune madri». Ma è appunto un termine maschile mentre volevo che il programma trasmettesse un punto di vista prettamente femminile. Così ho pensato fosse giusto riappropriarsi del termine, un modo per riprendersi una parola anche dispregiativa, metterci quella «s» davanti significa farlo in maniera ironica – come è il personaggio.

Che effetto le fa sceneggiare la propria vita?

Ho scritto quel corto perché ero stufa di essere un’attrice senza lavoro con un figlio piccolo a carico. E all’inizio ho pensato: se mi prendono sul serio come scrittrice magari trovo da lavorare come sceneggiatrice e un po’ di stabilità nella vita. Sono sempre stata una che dà molto valore all’onestà, mi piace dire le cose come stanno, apprezzo l’intimità che deriva dall’approfondire onestamente un argomento. Da qui l’idea di raccontare la mia storia, quella che conosco meglio

E quella della sua famiglia…

Mia madre è una donna cattolica cresciuta nelle case popolari di Southie e Rosie O’ Donnell (che la interpreta, ndr) ha vissuto una storia simile a New York, quindi è perfetta per quella parte. Un personaggio che tiene moltissimo alla famiglia ma che ha vissuto troppi eventi drammatici. Così soccombe in parte alla propria rabbia e alla propria malattia mentale.

Una vicenda quindi che concede molto all’ironia ma ha anche risvolti decisamente drammatici…

Le mie serie e i miei film preferiti hanno dei toni buffi e assurdi ma sono anche ancorati nella realtà. Cercare un risvolto curioso a circostanze drammatiche della vita è un meccanismo di sopravvivenza, ed è ciò che facciamo nel nostro programma. Ultimamente la televisione ci ha proposto serie brillanti dove si alternano momenti drammatici, come nel caso di show come Transparent. Mescolare l’estremamente buffo con l’estremamente triste è ciò che mi attira e finisco sempre per vivere in quel registro. Non mi interessa fare qualcosa che non scalfisce la superficie, voglio ridere ma di cose che definiscono le nostre comuni esperienze. E nel caso specifico delle donne questa realtà comprende sempre una dose di insicurezza, dubbi e lotte. È quanto volevo esplorare con Bridgette.

Storie che si sovrappongono in qualche modo alle sue vicende personali…  

Quando sono rimasta incinta abitavo a New York e sapevo che non avrei cresciuto mio figlio insieme al padre. Ho scoperto di aspettare un bambino un giorno piovoso e sono uscita a fare una lunga camminata. Poi ho chiamato le mie zie a Boston per confidarmi e loro mi hanno detto di tornare a casa e parlarne. Sono andata a Boston dove hanno cercato di convincermi a restare dicendomi: ‘Frankie sappiamo che hai tanta volontà ma da sola non ce la puoi fare’. Per mia fortuna ero molto ingenua e caparbia da non immaginare quanto sarebbe stato difficile cavarmela da sola. Così non solo non sono andata a casa, ma mi sono trasferita a Los Angeles…

Bridgette è molto poco glamour nel senso tradizionale di ciò che siamo abituati a vedere in tv.

Tutti vogliamo avere cose belle e apparire al nostro meglio. Ma esiste anche un effetto anestetizzante quando si diventa ossessionati dal consumo delle cose. D’altra parte avere passato una gioventù squattrinata mi ha in parte immunizzata dalla sindrome ’consumistica’. Naturalmente Hollywood è il trionfo del materialismo, e credo sia un problema di questo paese: la sindrome dello shopping. Nel nostro programma ci sono personaggi che ne sono ossessionati, succubi di gadget e prodotti sempre nuovi, un argomento di cui mi interessava parlare

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