Frankenstein, il pop è mostruoso
Miti/Duecento anni fa veniva pubblicato il romanzo di Mary Shelley. Un personaggio perfetto per il rock La storia della creatura riportata in vita da un dottore visionario ha ispirato una sfilza di musicisti, da Screamin’ Jay Hawkins ai Metallica. Ecco come canzoni, spettacoli, musical e colorite messe in scena hanno ricalcato in vari modi le vicende create dalla scrittrice inglese
Miti/Duecento anni fa veniva pubblicato il romanzo di Mary Shelley. Un personaggio perfetto per il rock La storia della creatura riportata in vita da un dottore visionario ha ispirato una sfilza di musicisti, da Screamin’ Jay Hawkins ai Metallica. Ecco come canzoni, spettacoli, musical e colorite messe in scena hanno ricalcato in vari modi le vicende create dalla scrittrice inglese
Cosa sono duecento anni se si è sopravvissuti alla morte? Due secoli fa, nel 1818 veniva pubblicato per la prima volta a Londra, per l’editore Lackington, un romanzo anonimo che venne diffuso in sole 500 copie. Raccontava la storia di uno scienziato visionario ai limiti della follia e della sua creatura straordinaria e spaventosa, riportata in vita dalla morte. Una storia che faceva venire i brividi a una società che iniziava ad ammirare e temere la scienza e che, dopo gli eccessi rivoluzionari e delle guerre napoleoniche, cercava un’arte capace di ricreare emozioni forti. Il romanzo Frankenstein: or, The Modern Prometheus era opera della giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin, moglie del poeta Percy Bysshe Shelley, e figlia del filosofo e politico inglese William Godwin. Il dottore Victor Frankenstein, protagonista della vicenda, riporta in vita un essere che diventerà l’emblema stesso di tutto quanto è mostruoso e minaccioso. Così come nel racconto una scintilla ridà vita a ciò che è morto, il mito di Frankenstein fu una folgorazione destinata a suggestionare e ispirare non solo il mondo letterario, ma anche la cultura popolare fino a trasformarsi nel XX secolo in un topos cinematografico e un’icona pop onnipresente. Già nel 1910 si realizza il primo adattamento cinematografico della storia per un film muto. Nel 1931 il mostro fu interpretato da Boris Karloff e da allora sarà per sempre associato alla sua maschera. La musica non poteva rimanere indenne da tutto questo e la creatura, che alla fine ha acquisito il nome del suo creatore in una sorta di patronimico, ha ispirato canzoni, spettacoli, musical e colorite messe in scena.
BARE E ALCOVE
L’immaginario horror fu il filo conduttore della carriera di una figura musicale fuori dal tempo e molto avanti rispetto all’epoca in cui visse: Screamin’ Jay Hawkins. Negli anni Cinquanta, l’era in cui il rock’n’roll era concentrato sulle passioni adolescenziali, questo stravagante e colorito artista afroamericano originario di Cleveland, popolò le sue canzoni di venature orrorifiche.
Prestigiatore, sacerdote voodoo, cannibale, clown e Frankenstein, Hawkins fu il primo a esibirsi sul palco con teschi e scenografie pensate per spaventare il pubblico. Alan Freed il mitico dj detto Moondog che fu uno degli inventori del rock’n’roll, gli suggerì di iniziare le sue esibizioni uscendo da una bara. Una trovata scenica dirompente per l’epoca. Ma forse troppo. I suoi spettacoli divennero un piccolo teatro degli orrori con ossa ed esplosioni così realistiche da lasciare diverse ustioni sul corpo del bizzarro perfomer. Si inventò anche una mascotte: Henry, un teschio con una sigaretta in bocca. Hawkins ebbe un grande successo nel 1956 con la canzone I Put a Spell on You e divenne così il «Vincent Price nero», mettendo in contatto il mondo musicale con quello del cinema del terrore. Tuttavia un artista nero che resuscitava dal mondo dei morti e cantava con una cupa voce d’oltretomba era ben al di là della sensibilità del pubblico di quel decennio che già si scandalizzava per le anche ondeggianti di Elvis.
La sua carriera venne frenata da una denuncia per aver avuto rapporti carnali con una quindicenne. Hawkins passò due anni in carcere e tornato in libertà cadde nell’oblio, diventando un artista di culto, spesso più apprezzato in Europa che in patria. La sua I Put a Spell on You intanto è diventata un classico, riproposto da artisti di ogni estrazione, da Nina Simone ai Creedence Clearwater Revival. Il brano è anche comparso nella colonna sonora del film sedicente erotico Cinquanta sfumature di grigio nella rivisitazione interpretata da Annie Lennox. Dalla bara all’alcova.
TERRORE E POLITICA
La risposta britannica a Screamin’ Jay Hawinks arrivò qualche anno dopo grazie a David Edward Sutch che dal suo omologo americano copiò quasi tutto. A iniziare dal soprannome. Anche Screaming Lord Sutch si esibiva sul palco uscendo da una bara e puntava tutto su una teatralità ispirata al mondo del gotico e del cinema horror. Non fu mai una popstar, ma fu un avanguardista, un provocatore e un guitto con una certa lungimiranza. La sua unica vera hit fu incisa nel 1961 ed era un brano dedicato a Jack lo Squartatore. Creò attorno a sé un piccolo circolo di imitatori tra cui le band Frankenstein and The Monsters, Ray Satan and The Devils e Count Lindsay III and The Skeletons. Iniziò al rock anche giovani musicisti destinati a grandi fortune, reclutando per le sue backing band Jeff Beck (che poi andrà negli Yardbirds), Ritchie Blackmore (che fonderà i Deep Purple), Matthew Fisher (Procol Harum), e Mitch Mitchell e Noel Redding (poi nella Jimi Hendrix Experience). L’aspetto più curioso è che Lord Sutch fu anche un militante politico e fondò un partito dedicato ai «mostri» dell’universo del terrore: l’Official Monster Raving Loony Party. Fu quello che in inglese viene definito un «perennial candidate», un candidato eterno, presentandosi fino alla morte, avvenuta nel 1999, a 39 competizioni elettorali senza mai venire eletto. Riuscì a superare i mille voti solo una volta, nel 1994. Ma la sua lungimiranza è attestata anche dal programma elettorale che presentò negli anni Sessanta: abbassare il diritto di voto a 18 anni, permettere la privatizzazione delle radio, abolire gli orari di chiusura per i pub, creare un passaporto per gli animali domestici, nominare baronetti i Beatles. Rivendicazioni che nel tempo sono tutte diventate realtà.
BAND E LEGGENDE
In un’intervista del 1995 il leader dei Grateful Dead Jerry Garcia ricordò come il mito di Frankenstein non fosse solo legato alla sua infanzia, ma rappresentò per lui anche un momento di rivelazione personale e artistica. Garcia scoprì il racconto non attraverso le pagine del romanzo, bensì, come tanti ragazzi della sua generazione, grazie ai b-movie. Nel 1948, a sei anni, il futuro musicista venne portato al cinema dalla madre. In sala c’era Abbott and Costello Meet Frankenstein. Il popolarissimo duo comico, che in Italia veniva chiamato Gianni e Pinotto, amava parodiare i classici dell’orrore. Ma per il piccolo Jerry la proiezione fu un’esperienza spaventosa. «Non avevo mai visto un film horror prima di allora – disse Garcia – e mi terrorizzò. Non feci altro che nascondermi dietro la sedia. Fu puro panico. Ma ne fui anche affascinato». Un altro aspetto segnò profondamente quel bambino spaesato. Pochi mesi prima il padre di Garcia, Joe, era morto affogato, travolto da un’onda quando stava pescando. L’idea di una creatura in grado di tornare dalla morte con sembianze mostruose si collegò al trauma della scomparsa del padre e si fissò nella memoria del giovane Jerry fino a diventare una figura simbolica legata alle sue paure e alle sue inclinazioni artistiche. Garcia divenne così ossessionato da Frankenstein e dalle sue riletture cinematografiche da studiare maniacalmente come nacque il trucco di Boris Karloff nello storico film del 1931 e rappresentando in tantissimi disegni giovanili il personaggio.
«L’intera iconografia divenne per me incredibilmente coinvolgente», spiegò. Nel 1965 Garcia fondò il suo gruppo, The Grateful Dead (Il morto riconoscente). La leggenda narra che il nome del gruppo venne scelto a caso puntando il dito su un dizionario enciclopedico dedicato al folklore. Ma i Grateful Dead crearono attorno al loro nome e alla loro musica un apparato iconografico che ricreava atmosfere gotiche e in cui la morte veniva umanizzata ed esorcizzata. Senza dubbio un retaggio di quella traumatica esperienza infantile. Anche per questo il lungo documentario del 2017 di Amir Bar-Lev The Grateful Dead, Long Strange Trip che si è guadagnato una nomination ai Grammy Award è infarcito di riferimenti alla leggenda di Frankenstein.
CINEMA E SESSO
L’universo gotico tornerà protagonista nel mondo del rock più compiutamente negli anni Settanta. Il decennio della trasgressione però non poteva lasciare intatti neppure i classici. La reincarnazione del dottor Frankenstein era un uomo che portava le calze a rete. Il protagonista del romanzo di Mary Shelley si trasformò nel dottor Frank-N-Furter, un’ambigua drag queen, per il musical Rock Horror Show, ideato, scritto e musicato nel 1973 da Richard O’Brien, un attore che sbarcava a stento il lunario. Due anni dopo lo stesso O’Brien ne curò un’edizione cinematografica diretta da Jim Sharman. Il titolo cambiò in Rocky Horror Picture Show e il film venne accolto freddamente e relegato alle programmazioni di mezzanotte delle sale d’essai. Sembrava una bocciatura, fu la consacrazione.
Gli spettacoli notturni del film divennero degli happening e il musical rock divenne il cult movie per definizione. A oggi è il film che nella storia del cinema ha la più lunga sopravvivenza nelle sale. La storia di O’Brien è di fatto un adattamento, scriteriato e irrispettoso, del racconto di Mary Shelley e delle sue ramificazioni cinematografiche. Dal mito di un «moderno Prometeo» si passa però, come ha scritto qualcuno, a un «Dioniso gay e postmoderno». Se la creatura descritta nel romanzo è ripugnante e terrorizzante, la creatura del musical rock è l’incarnazione della perfezione estetica e dell’attrazione. Il lavoro del dottore in guêpière Frank-N-Furter non nasce per abbattere i confini tra la vita e la morte, ma i confini della morale e delle regole sessuali. È curioso pensare che in qualche modo questa rilettura del romanzo ottocentesco possa aver sviluppato un tema già presente nel libro di Mary Shelley. Secondo diversi esegeti, infatti, la Shelley era ossessionata dall’androgino e confusa dalle identità sessuali.
GLAM E PUNK
Confini sessuali permeabili, esagerazioni, istrionismi e rock’n’roll furono gli ingredienti che resero il Rocky Horror Picture Show un fenomeno di costume; erano gli stessi elementi che in quegli stessi anni diedero energia al «glam rock». Nel 1972 Lou Reed, prodotto da David Bowie, influenzato dal glam creava con l’album Transformer il suo capolavoro solista. In copertina l’ex Velvet Underground appariva, prima ancora della nascita di Frank-N-Furter, come una creatura artificiale e androgina.
Qualcuno notò una certa somiglianza con il Frankenstein cinematografico di Boris Karloff, forse più frutto del caso che dell’intenzione. Una somiglianza riemersa in più occasioni. Lou Reed si rivide nei panni della creatura qualche anno dopo, quando nel gennaio 1976, il primo numero della fanzine Punk, manifesto del nascente movimento musicale, lo disegnò in caricatura proprio come la creatura di Mary Shelley. Era tornato dal mondo dei morti per diventare il padrino e l’ispiratore del punk. Reed ai tempi aveva 35 anni, ma per i ragazzi che iniziavano a chiamarsi punk era un patriarca. Uno degli anelli di congiunzione tra glam rock e punk furono senza dubbio i New York Dolls. Anche la band di David Johansen e Johnny Thunders giocava con l’ambiguità, tanto da presentarsi come un gruppo di travestiti.
SOGNI E PAURE
Le canzoni del loro omonimo disco di debutto del 1973 erano dedicate a New York, una città all’epoca fatta di ostentazione, sogni e paure. Uno dei brani principali della raccolta, si intitola proprio Frankenstein. Il mostro del pezzo era la personificazione della Grande Mela e il brano di sei minuti era il racconto, come ha spiegato Johansen, di come i ragazzi arrivassero a Manhattan e si trovassero completamente disorientati.
«Si sarebbero mai aspettati un Frankenstein?», recita il testo. Ma la canzone, sempre secondo l’autore del brano, è una canzone d’amore, perché alla fine il mostro attira a sé e seduce: «È forse un crimine innamorarsi di Frankenstein?». Nel disco il brano venne pubblicato con il titolo Frankenstein (Orig.) essenzialmente per distinguerlo da una hit dallo stesso titolo incisa dall’ Edgar Winter Group che aveva occupato il primo posto della classifica di vendita Usa nel maggio 1973. Considerato tutto la creatura di Mary Shelley fu una delle più grandi rockstar dei Seventies.
RABBIA E ADOLESCENZA
Cresciuto alla corte di Frank Zappa, il giovane rocker di Detroit Vincent Furnier, diede una svolta alla sua carriera proprio quando il panorama musicale cercava dai suoi performer rappresentazioni sempre più teatrali e sensazioni sempre più estreme. Nel 1971 la sua band, gli Alice Cooper, di cui poi assunse il nome, portò sul palco uno spettacolo ispirato al loro terzo album Love it to Death.
L’eccentricità del glam era stata riscritta in chiave macabra. A brillare sulla scena non erano i lustrini ma i riflessi del sangue. Vincent cantava avvolto da una camicia di forza e alla fine del concerto si immolava su una sedia elettrica tra urla, lampi e fulmini. Qualche anno dopo Vincent divenne definitivamente Alice Cooper. Nasceva lo shock rock. Basso, chitarra, batteria, zombie, serpenti e teschi: dai romanzi gotici ai classici di Boris Karloff degli anni Trenta fino ai b-movie e i film camp degli anni Sessanta, tutto diventava ispirazione per portare sul palco uno show che univa il grand guignol all’hard rock. Si consumò un matrimonio tra controculture. Il fenomeno scoppiò negli stessi anni del Rocky Horror Picture Show tanto da far pensare a un’affinità tra Alice Cooper e Frank-N-Furter. La band nel 1973 superò il record di biglietti venduti ai concerti battendo il primato dei Rolling Stones. Nel 1975 Alice Cooper divenne un artista solista e i suoi show nel tempo sono diventati uno dei più popolari circhi dell’orrore del mondo. Uno dei suoi brani più popolari è Teenage Frankenstein in cui l’angoscia della creatura, che cerca amore trovando però solo rifiuto e rabbia, si rispecchia perfettamente nel disagio e nel senso di inadeguatezza degli adolescenti: «Sono un Frankenstein teenager, il mostro locale con la mente sballata. Ho una faccia sintetica, ho cicatrici sulle braccia. Le mie mani sono graffiate e sanguinanti. Cammino nella notte e le donne quando mi vedono svengono»
ALCOL E METAL
Alice Cooper aveva portato il grand guignol, i Black Sabbath e i Led Zeppelin l’occultismo: l’heavy metal dagli anni Settanta aveva fatto suo l’intero pantheon della cultura gotica e horror, venendo così indicato come la musica del diavolo. Ma da Mary Shelley si era passati però a Edgar Allan Poe e a H.P. Lovecraft. Gli Iron Maiden esordirono nel 1981 con un album in cui spiccava la canzone Murders in the Rue Morgue, dal titolo di un’opera letteraria di Poe, nel 1984 i Metallica includevano nel loro secondo album una suite musicale ispirata al racconto Il richiamo di Cthulhu di Lovecraft. Uno dei maggiori successi dei Metallica, Enter Sandman, fa riferimento a una figura, «l’uomo di sabbia» (o in italiano anche detto «l’uomo del sonno»), nata nel folklore nordico e diventata protagonista di un famoso racconto gotico di E.T.A. Hoffmann di poco antecedente e con molti spunti simili a quello di Mary Shelley. L’invenzione della scrittrice inglese è ispirazione per Some Kind of Monster, brano inciso dalla band nel 2004 in un periodo di crisi. Il leader della band, James Hetfield, che ai tempi stava affrontando un percorso di recupero dall’alcolismo, si sentiva come una sorta di Frankenstein. Nell’erigerlo a simbolo del disagio forse il mondo dell’hard rock e del metal ha capito la vera essenza della creatura tornata dalla morte che si rivolgeva al suo padre-creatore dicendo: «Io ero buono, la mia anima bruciava di amore e umanità; ma non sono forse solo, disperatamente solo?».
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