«Frankenstein (a love story)», maschere e altre anime
A teatro La nuova creazione di Motus all'Arena del Sole
A teatro La nuova creazione di Motus all'Arena del Sole
Ci sono molte porte che si aprono nel misterioso sognante avvolgente Frankenstein (a love story) che Motus ha presentato all’Arena del Sole. E a seconda di quella scelta per entrare – che poi scelta non è ma necessità incombente, a un certo punto bisogna buttarsi come deve fare chi teme l’acqua fredda del mare – sarà inevitabilmente diversa la visione che ci si presenta. C’è naturalmente quella che dà sul gotico romanzo scritto da Mary Shelley nel secondo decennio dell’Ottocento, ma non porta lontano; la vicenda non sembra contare granché nell’economia dello spettacolo scritto e diretto da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande. Sta lì sullo sfondo, troppo cinema l’ha rimasticata. Piuttosto è lei, la giovanissima ragazza inglese, con la sua tormentata biografia, a farsi protagonista di quella che è dichiaratamente una «love story». Arricchita, nella drammaturgia di Ilenia Caleo, dalle voci del pensiero femminista più sensibili al rapporto con la scienza, anche nelle sue derivazioni fantasy o cyborg.
ECCOLA INFATTI, avvolta in un mantello bianco che rompe la quieta uniformità dell’ambiente nebbioso, tagliato da sottili fasci di luce che piovono dall’alto (è la performer greca Alexia Sarantopoulou). Avanza lungo una linea spezzata che è un po’ la traccia del percorso vitale compiuto dalla ragazza che «dorme con i mostri». Che lì, nei pressi del lago di Ginevra, diventerà Mary Shelley. Fino a raggiungere il proscenio dove si accovaccia a terra, fra il computer portatile dove ogni tanto torna a buttar giù qualche frase e le sue iniziali in funzione di segnaposto, però di una materia commestibile, ogni tanto torna a darci un morso. «Ogni tanto» è la traccia della ripetizione o della circolarità su cui gira lo spettacolo.
Fa capolino sul fondo con indosso la maschera modellata sul volto di Boris Karloff, nel film del 1931, troppo grande per il corpo sottile di Silvia Calderoni che è ormai presenza imprescindibile sulla scena di Motus.
SIPARI SBILENCHI salgono e scendono mutando continuamente i contorni della scena attorno allo spazio centrale che è campo di gioco, luogo di contatti, pista da ballo per una danza solitaria. Ornati da una specie di ricamo o di una plastica trasparente. E intanto lei si è spogliata degli abiti, si espone in una nudità decorata dai segni che ha impresso sul seno, in un desiderio di vita animale mentre se ne sta confinata in casa da una pioggia incessante a leggere storie di fantasmi. Ma ecco anche il demiurgo Victor Frankenstein, lo studioso che non riesce a sostenere lo sguardo della creatura artificiale cui ha dato vita. Fa capolino sul fondo con indosso la maschera modellata sul volto di Boris Karloff, nel film del 1931, troppo grande per il corpo sottile di Silvia Calderoni che è ormai presenza imprescindibile sulla scena di Motus. Inchini, saluti al pubblico, ma subito si sbarazza di quella maschera, se la porta dietro come Giuditta con la testa di Oloferne. E alla fine compare anche lei, la Creatura, interpretata dallo stesso artefice Enrico Casagrande, a rivendicare in qualche modo una parallela mostruosità della scena. Una sorta di Yeti che avanza in mezzo ai ghiacci del Monte Bianco, desiderosa anch’essa di raccontare la sua storia.
Frankenstein (a love story) è propriamente «une valse à trois temps» giocata fra la veglia e il sonno, fra tre figure che finiscono per sovrapporsi. «Io contengo Victor che contiene la Creatura che contiene Mary Shelley che contiene Victor» e così via, come in quelle bamboline russe che stanno l’una dentro l’altra. Ma a chi appartiene quell’io? Alla fine sono tutti e tre sul palco, accomunati dalla maschera di un mostro che rivendica il diritto di avere un’altra compagna simile a lei, il diritto a riprodursi liberamente. Siamo simbionti su un pianeta simbiotico, avevano già detto. Cosa distingue l’umano dalle altre creature biologiche? Cosa lo distingue dalle macchine? Forse è tempo per una nuova specie, dare vita alla materia inanimata, pensare una macchina artificiale capace di crescere, di moltiplicarsi. Forse è l’ultima porta che si apre di fronte allo spettatore. Quando ormai forse non ne abbiamo più bisogno. Dentro questa «love story» siamo già precipitati.
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