La reattività e l’intensità narrativa del corrispondente di guerra – maturate quando nel 1995 il trentenne Frank Westerman era a Belgrado per conto del quotidiano Volkskrant, sulle cui colonne documentò gli eccidi di Srebrenica e i report riservati del contingente Onu – non sono estranee nemmeno alla scrittura letteraria dell’autore olandese, che pochi anni dopo quella prima esperienza si sarebbe occupato anche di terrorismo, di decolonizzazione, di censura. Votata interamente al reportage, la scrittura di Westerman è segnata da un passo ramingo, disposto a inserirsi in quelle pieghe infruttuose del dato di realtà che il racconto giornalistico non ha modo di frequentare. Oggi Westerman si dedica piuttosto a ricostruzioni storiche, ma lo fa battendo piste private, come se scavando più a fondo nell’intimità di una vicenda si potesse sbucare su un qualche nuovo, più luminoso orizzonte di verità. Ne è un esempio il suo ultimo lavoro, Noi, umani (Iperborea, pp. 352, € 18,50) dove esplora i meandri e i vicoli ciechi della paleoantropologia, disciplina nata a metà dell’Ottocento in seguito alle clamorose scoperte dell’evoluzionismo, e che sfociò più o meno in una mania grazie alla quale scienziati, ma anche curiosi, religiosi, avventurieri, si proiettarono alla ricerca febbrile dell’anello mancante tra la scimmia e l’uomo. Durante la nostra conversazione, a Roma, Westerman si passava tra le mani un piccolo teschio, sulla cui fronte ogni tanto picchiettava divertito.

Nei suoi libri sembra che la affascinino figure che hanno lavorato su versanti eterogenei: per esempio, ha raccontato i tentativi di conciliare le teorie creazioniste con alcune innovazioni scientifiche. In «Ararat» cita il libro di un medico svizzero, «Physica sacra», che è una sorta di mediazione tra i due orientamenti. Mentre in «Noi, Umani» sono presenti missionari che diventano archeologi, quasi a dimostrare come il racconto scientifico abbia sempre bisogno di dialogare con il mondo sacro.

Mi interessa, in realtà, il disporre gli stessi fatti in modi differenti. Del resto, ho studiato ingegneria agraria e rispetto il metodo scientifico, ma vengo da un nucleo familiare molto credente, protestante non riformato, che prende la fede piuttosto sul serio. E sebbene nutra grande rispetto per la scienza, il suo tallone d’Achille è che a interpretarla sono esseri umani, fallibili, pieni di lacune e di fragilità. Tendiamo a cadere nelle trappole che noi stessi ci prepariamo. Emblematico il caso dello scopritore Ralph von Koenigswald, che si fece fotografare con la moglie, una serie di dottorandi e un teschio, tenendolo come fosse il suo bebé. Guardate, diceva, è così grande, più grande di quello di uno scimpanzé, ed da qui, da questa concentrazione di materia grigia, che nasce la nostra creatività: da qui viene il pensiero astratto, e così via. Quello stesso cranio a partire dagli anni Novanta risultò essere di una povera scimmietta di tre anni, vittima di uccelli rapaci. Il cranio è un oggetto tangibile, apparentemente è un fatto, poi però lo lucidi e quello che vedi è lo spirito del tempo, ovvero il carattere del suo scopritore. Nel campo della paleoantropologia questo è un grande limite, ma è anche vero che l’homo sapiens ha la capacità di riparare ai suoi errori, di rivedere le proprie azioni. Tornando alla mia scrittura, la differenza tra un romanzo concluso, arrivato a una sua compiutezza, e il genere che io prediligo, è che questo mi consente, per esempio, di aggiungere un capitolo a distanza di dieci anni: la non-fiction non è mai definitiva, come la scienza.

Dopo «Ingegneri di anime» lei è tornato a trattare di Russia – un paese dove pure ha soggiornato a lungo come corrispondente – nel suo ultimo «De kosmische komedie», uscito nel 2021 nei Paesi Bassi. Tutto ruota intorno allo stesso campo di concentramento di cui parla Harry Mulisch in «La scoperta del cielo»…

Sì, ancora una volta, la mia è una sorta di variante non-fiction. Sono cresciuto, a otto chilometri da Westerbork, in quel campo di transito da cui 102.000 persone, uomini donne e bambini, prevalentemente ebrei, furono trasferiti in lager di sterminio. Quel luogo venne definito una «macelleria di transito», la più grande in Olanda durante la seconda guerra mondiale. Oggi ospita un osservatorio astronomico, con quattordici grossi radiotelescopi. Già Harry Mulisch nel suo libro affrontava la contrapposizione, in quel luogo, fra un’opera di distruzione e lo studio delle stelle. Il mio libro parla della tensione verso un mondo migliore, che fallisce. Descrive il momento in cui un sogno si trasforma in incubo, spingendomi a cercare di capire come avvenga la trasformazione di qualcosa di positivo in qualcosa di terribile.

«Noi, umani» è forse la sua opera più ambiziosa, sia per quanto riguarda i temi affrontati sia nella composizione. Lei lo ha scritto durante il suo periodo di insegnamento presso l’Università di Leida: lo considera un’opera in qualche modo programmatica?

A Leida c’è la più antica università d’Olanda, e dal 1986 è tradizione che un romanziere vi insegni per un semestre: da sempre lo stampo tradizionale degli accademici ha fatto coincidere letteratura con fiction, così mi sono sentito molto lusingato dal rompere, dopo trentadue anni, quella convenzione. L’anno in cui mi hanno invitato era del resto lo stesso in cui hanno assegnato a Svetlana Aleksievic il Nobel per il suo lavoro di reportage. Ho dunque annunciato ai miei studenti l’idea per un nuovo libro, e ho proposto loro di collaborare diventandone personaggi. Ho allestito nell’aula una sorta di laboratorio, e ci siamo poi spostati anche in riva alla Mosa e altrove cominciando con il porci una serie di questioni: perché ci vediamo come la misura di tutte le cose? Da dove veniamo? Abbiamo cominciato dalla scoperta del cranio dell’uomo di Flores, che ribalta la nostra idea sull’evoluzione umana, stravolgendo l’albero genealogico.

Avevate un osso, bisognava cavarne una storia…

Infatti, a me sembra che ci sia tra i fatti e le parole la stessa relazione che c’è tra le ossa e la carne. Proprio come le ossa, i fatti non parlano mai da soli. Nel nostro caso, l’ossatura era una serie di ritrovamenti di crani, uno a Giava, uno a Flores, uno in Sudafrica, uno in Etiopia, separati da migliaia di anni, oceani e continenti, ciò che ci consententiva di tracciare racconti sulla nostra provenienza e sui requisiti trascendentali che ci differenziano dagli animali. Nel 1900 l’Olanda presentò un reperto all’ombra della torre Eiffel per la mostra internazionale di Parigi, in cui si pretendeva che quello fosse il cosiddetto missing link, «l’anello mancante tra scimmia e uomo». Oggi quel reperto è ancora importantissimo, è considerato l’olotipo dell’homo erectus, il nostro diretto antenato, ma è altro dal missing link che sarebbe poi stato identificato nella Lucy, ritrovata nel 1974. Nessuno crede più all’esistenza di un unico anello mancante, e questo è solo un esempio, per non dire degli aneddoti che da sempre circondano gli scopritori. Il racconto relativo alle loro lotte per contendersi letteralmente un osso, forse ci dice di più sulla nostra natura umana di quanto non ci insegnino determinate scoperte.

In «Noi, umani» è molto significativa il personaggio del professor Teuku Jacob, un esperto di fossili che sequestra i resti dell’uomo di Flores per ricomporli secondo le sue teorie. E così, sconvolto dalla disperazione dei fatti che non tornano, finisce per danneggiare quei reperti. Lei invece ammette anche gli eccessi di incoerenza: è perciò che si tiene lontano dalla pura scrittura di finzione?

No, direi che le ragioni sono altre, e risiedono nelle motivazioni del mio impegno, ovvero del mio modo di partecipare a quanto mi circonda. Ma non è facile dire in cosa consista questo coinvolgimento. Al montare della tempesta, voglio tenere i miei occhi ben puntati sulla costa. Temo che la fiction, quando rimanda solo a se stessa, soprattutto in tempi di propaganda, magari propaganda di guerra, diventi problematica; perché se le parole non fanno che rimandare a altre parole, magari in forma di libro, evitando di rifarsi ai fatti, temo lascino spazio a false notizie, come accade nei resoconti della Russia sulla guerra in Ucraina, quando per esempio si afferma che le foto di Mariupol sono manipolate.
A un certo punto i miei studenti, tutti post-modernisti, intrisi di certe idee per cui l’equatore è un concetto, e il nord e il sud sono mere convenzioni, mi hanno chiesto di spiegare loro cosa sia un fatto: l’acqua, ho detto loro, ha il valore massimo di densità a 4 gradi Celsius, e non a 5, né a 3. Partiamo da qui.

Per alcuni personaggi di «Noi, Umani» dissotterrare il passato sembra essere una fissazione, più che una scelta conoscitiva. Mentre è in cerca di fossili nel sottosuolo, per esempio, Padre Theo Verhoeven resta indifferente ai feroci massacri di Suharto, perpetrati in Indonesia tra il 1965 e il 1966.

Nell’isola di Flores c’è una grotta, chiamata Liang Bua; dieci centimetri di roccia contengono mille anni di storia; dieci metri, centomila anni. In questo viaggio nel tempo si incontrano ratti grandi come cani, elefanti piccoli come pony. Ai miei studenti ho detto: «scendiamo nella tana del bianconiglio, ma non vi troveremo nessuna Alice». Nel momento in cui mi sono trovato lì, nella grotta con mia figlia, mi sono accorto del silenzio che circondava i campi di morte del 1965 e 1966. Probabilmente ci sono duemila persone sepolte lì sotto, ma non se ne può parlare. Il mondo intero era rapito da un unico piccolo cranio finito sulla copertina di «Nature», tutti parlavano di una nuova specie di ominidi, e i campi di morte erano tabù. Fosse fresche dove nessuno poteva scavare. Nel libro racconto anche del giorno in cui viaggiando lungo la Mosa con alcuni studenti abbiamo raggiunto il sito dell’uomo di Neanderthal. Lì abbiamo appreso del primo caso di inquinamento atmosferico così grave da aver causato la morte per asfissia di alcune persone che avevano respirato vapore tossico. C’è una parola in olandese, nestbevuiler per nominare colui che avvelena il proprio nido.

La scelta di rivolgersi al passato può essere letta come una alternativa alla responsabilità di prendere posizione sul presente, soprattutto in contingenze, come quelle attuali, in cui il confronto con il passato porta a dibattiti sempre più aspri?

Negli anni Novanta ero corrispondente a Belgrado e la Serbia, tramite il presidente Milosevic – un ex comunista – strinse un patto con la chiesa ortodossa. L’obiettivo era la Grande Serbia. Contribuirono anche gli intellettuali, fior di think tank supportavano questa idea, per la quale svolsero un ruolo in quegli anni estremamente nocivo. La mia sensazione è che il nazionalismo serbo soffrisse di un eccesso di storia. Riemersero i massacri del 1392, la vendetta sui turchi, a seicento anni di distanza da una battaglia persa, che doveva essere vendicata in Bosnia.
Oggi il presidente Putin rilegge la storia dell’Ucraina andando ancora più indietro nel tempo, e stringe un patto con il patriarca della chiesa ortodossa, legittimando l’invasione e la totale devastazione di un paese moderno. La storia non si ripete, piuttosto – come dice il mio amico scrittore Peter Waterdrinker – la storia fa rima con se stessa.