Frank Stella, il minimalismo si fa opulento
Nel nuovo Whitney Museum di Renzo Piano a New York, un'antologica di Frank Stella I curatori vorrebbero dare omogeneità a un iter in realtà pieno di virate e contraddizioni, e sbalzi qualitativi: dalla pittura «a grado zero» degli esordi al barocco colorato degli ultimi anni
Nel nuovo Whitney Museum di Renzo Piano a New York, un'antologica di Frank Stella I curatori vorrebbero dare omogeneità a un iter in realtà pieno di virate e contraddizioni, e sbalzi qualitativi: dalla pittura «a grado zero» degli esordi al barocco colorato degli ultimi anni
La nuova sede del Whitney Museum di New York, inaugurata a maggio e concepita da Renzo Piano come un’austera fortezza artistica di vetro e acciaio, comprende un negozio in cui i visitatori, oltre a libri e ammennicoli para-culturali, possono anche acquistare in questi giorni le decorazioni natalizie firmate dall’artista americano Frank Stella, la cui grande retrospettiva – curata da Adam D. Weinberg e Michael Aupig – occuperà l’intero quinto piano del museo fino al 7 febbraio prossimo. Si tratta di intricate stelle tridimensionali che riproducono le gigantesche sculture realizzate dall’artista nel 2014, due delle quali, Wooden Star e Black Star, si stagliano contro il profilo dei grattacieli di Lower Manhattan da una delle terrazze del museo. Esteticamente appaganti, queste opere risulterebbero del tutto anonime, mere decorazioni appunto, se non fossero anche ciclopiche proiezioni del cognome dell’artista, con buona pace di Rosalind Krauss, che – nel 1966 – aveva visto in Stella uno dei principali distruttori dei concetti legati all’originalità modernista dell’opera, tra i quali appunto il concetto di autore.
Sintomaticamente, nel catalogo di Frank Stella. A Retrospective, nonostante i curatori abbiano trovato spazio per oltre sessanta pagine di cronologia, queste opere non sono né riprodotte, né menzionate, quasi fossero calcoli acuminati fuoriusciti per caso dal corpo macroscopico di un artista tanto prolifico quanto proteiforme. L’intento di questa retrospettiva, come si deduce dai quattro saggi dei curatori e soprattutto dalla sua organizzazione non cronologica che affianca, per volontà dell’artista, opere realizzate a oltre vent’anni di distanza, sembra infatti motivata dall’intento di smussare gli spigoli di una traiettoria creativa di oltre cinquant’anni, che presenta virate vigorose, contraddizioni, e soprattutto il tenace rifiuto opposto da Stella all’idea di venire considerato uno scultore, nonostante la sua perenne tensione verso la terza dimensione e l’ossessione per la definizione di uno spazio pittorico. Se l’effetto di ridondanza provocato da questa scelta diacronica può forse dare al visitatore meno avvezzo all’opera di Stella l’illusione di una continuità, l’impressione di chi si è già misurato con questo maestro del Novecento è piuttosto che la mostra voglia dimostrare come la qualità artistica dell’opera di Stella sia costante in tutta la sua produzione.
Eppure basta fermarsi di fronte alle tremule linee che separano le nere strisciate di vernice della serie Black Paintings, che nel 1959, quando aveva solo ventitré anni, coronarono in Stella il profeta del Minimalismo e lo sterminatore dell’Espressionismo astratto, per capire che non tutto nell’opera di questo artista ha avuto il medesimo impatto sulla storia dell’arte.
Il concetto alla base delle prime sperimentazioni formali di Stella è quello che lo storico dell’arte Michael Fried ha chiamato «struttura deduttiva». L’idea è che il contenuto di un dipinto possa essere creato a partire dalle dimensioni stesse della tela, che Stella suddivide in barre ritmiche, dipinte senza preparazione previa della tela, a partire dai bordi. L’effetto d’insieme è un’increspatura visiva, che rivela, per via delle irregolarità delle pennellate, un gesto prossimo al grado zero della pittura. Ispirato dalla serie delle Bandiere americane di Jasper Johns, da un lato Stella ne radicalizza il gesto e la serialità riducendo la pittura ai minimi termini, dall’altro neutralizza ogni contenuto rappresentativo, rifiutando la retorica soggettiva e il misticismo espressivo dell’astrazione gestuale di artisti come Jackson Pollock, Franz Kline, e William de Kooning, in favore di quella che Donald Judd ha chiamato una oggettività aggressiva.
Nelle serie degli anni sessanta Aluminum e Copper, così intitolate per l’uso di vernici industriali metallizzate, Stella porta a termine la sua mattanza dei padri, rivoluzionando anche il concetto di tela rettangolare. La sua pittura minimalista – salutata dal critico Clement Greenberg come una forma progressista di arte autoriflessiva – allarga le potenzialità espressive del quadro tramite l’impiego di tele sagomate, la cui forma determina interamente la ripetitiva meccanicità del gesto pittorico, che ha il solo scopo di riempire l’intero spazio disponibile.
Stella non costruisce uno spazio teorico, ma lascia che sia lo spazio reale della tela a determinare il fraseggio pittorico. Con la serie del 1962 intitolata Miniature Benjamin Moore, dal nome della marca della pittura impiegata, e soprattutto con Jasper’s Dilemma, l’artista statunitense ritorna momentaneamente alla forma quadro, ma solo per saggiare le potenzialità spaziali del colore, creando illusioni che anticipano i risultati della Optical Art. È negli anni sessanta che la sua opera brilla indiscutibilmente come una delle più significative nella ridefinizione del vocabolario artistico: sono questi gli anni delle sue opere più mature, come la serie di poligoni irregolari che esercitano un’enorme influenza su Sol LeWitt.
Non solo, infatti, Stella fa della parete un elemento compositivo, la cui centralità verrà poi radicalizzata proprio da LeWitt, ma si rivela anche uno straordinario colorista, combinando la brillantezza di vernici industriali e tinte fluorescenti a una composizione geometrica rigorosamente eccentrica e dinamica.
Gradualmente, Stella inizia a incorporare nel suo linguaggio nuovi elementi sintattici. Ne è un esempio la serie detta «dei goniometri», per via dell’introduzione del semicerchio, di cui l’artista varia la composizione cromatica fino al limite del decorativismo, realizzando opere mastodontiche quali Haran II (1967), che segnano il suo successo commerciale ma anche l’inizio della sua graduale e per molti imperdonabile abiura del Minimalismo degli esordi.
Nella splendida serie segnata da nomi di diversi villaggi polacchi e realizzata tra il 1971 e il 1973, Stella sembra ancora contenere la sua passione per il barocco attraverso un’articolazione formale ispirata dal Costruttivismo di Malevic e dalle tonalità sorde della tavolozza cubista. La superficie si va però complicando con la combinazione di spigolose tele sagomate, assemblate secondo diversi gradi di angolazione, e l’impiego di materiali come il feltro colorato, la cui opacità permette anche alle ombre di divenire elementi compositivi. A partire dagli anni settanta, poi, prenderà avvio una tanto inaspettata quanto aggressiva esplosione del gesto: dalla pittura senza pittura, Stella passa violentemente alla creazioni di complessi macro-collage in rilievo, in cui la terza dimensione, la pennellata gestuale, e il polimaterialismo non sono più solo suggeriti ma, come in Gobba, zoppa e collotorto (1985), teatralmente e serialmente messi in scena attraverso l’epica visiva di personaggi geometrici come il cono e il cilindro, esotericamente ispirati alla lettura dei Racconti italiani di Italo Calvino.
In questa fase, la pittura di Stella non si fa semplicemente opulenta, ma diventa una forma di trasgressione barocca, la cui componente narrativa – esemplificata, ad esempio, dalle oltre duecento opere degli anni ottanta che illustrano i capitoli di Moby Dick, cinque delle quali esposte – si avvita su se stessa in quello che Deleuze, nel suo studio sulla piega, ha chiamato «il labirinto del continuo nella materia». A partire dalla serie Brazilian (1974-’75), infatti, il supporto privilegiato di Stella è l’alluminio, che piega, dispiega e ripiega dando vita a concrezioni pittoriche massimaliste, come se John Chamberlain avesse fracassato e ironicamente riassemblato insieme le gigantografie di Lichtenstein e le tele di De Kooning.
Quelle del secondo e dell’ultimo Stella sono tuttavia opere dai titoli pretenziosi: The Marriage of Reason and Squalor II e The Grand Armada, dunque prive della redenzione postmodernista dell’ironia. Si pensi ad esempio a un’opera come Raft of the Medusa (1990), una concrezione rizomatica di alluminio e acciaio ispirata niente meno che alla Zattera della Medusa di Géricault e – come tutte le sue opere degli ultimi decenni – in bilico radicale tra pittura e scultura, mentre evocano il lavoro di una pletora generale di altri artisti. Al Whitney, sui fogli da disegno di un gruppo di bambini invitati a esprimere le loro reazioni di fronte a questa opera, qualcuno, forse già con il pensiero alle decorazioni natalizie, ha disegnato, con poche linee, una semplice stella.
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