Una storia di passione, lotte, vittorie e sconfitte. Una saga di generazioni di eroi, che si susseguono sul palcoscenico della vita. È la storia di un uomo, dei suoi sogni, delle scoperte che ha fatto, degli uomini che ha conosciuto, dell’epoca che ha attraversato. Una simile descrizione ben si adatta a descrivere Il nome sopra il titolo La vita meravigliosa di un maestro del cinema, l’autobiografia del regista americano Frank Capra, da poco riproposta (nella traduzione di Alberto Rollo e con una nuova introduzione di Fabio Stassi) per i tipi della minimum fax (pp. 568, euro 23,00). Frank Capra non è solo un regista: Capra è anche, e soprattutto, una delle leggende del cinema.
Film come Accadde una notte (1934), Arsenico e vecchi merletti (1944) o La vita è meravigliosa (1946) hanno profondamente trasformato l’immaginario collettivo (americano e non), così come il modo di concepire e di praticare il genere della commedia in tutte le sue tonalità (soprattutto comica e sentimentale). Frank Capra ha rappresentato il sogno americano al cinema. Ma, rispetto a questo facile truismo, Il nome sopra il titolo rappresenta una piacevole e inaspettata scoperta. Il consiglio è di leggere il libro non come un’autobiografia ma come un romanzo. Innanzitutto perché l’autore privilegia la traiettoria della sua carriera di regista. Insomma, alla base del dispositivo narrativo di questo libro è presente in modo evidente un lavoro di taglio e montaggio che l’autore opera sulla sua vita. Per dirla in breve, Capra nella pagine della sua autobiografia sta costruendo un personaggio.
Un giovane pastorello siciliano
Si badi, non si vuole suggerire che sia in opera qui una mistificazione o autocelebrazione. È più corretto dire che Capra, usando un nuovo medium espressivo (la scrittura), sta applicando a se stesso il modello narrativo che predilige anche come regista. La vita di Capra è la storia del sogno americano realizzato. Con ciò si dice però troppo poco: il regista Capra si rivelerebbe così, come scrittore, un narratore non altrettanto sottile e raffinato. L’autore, infatti, inventa (o forse semplicemente riporta, o entrambe le cose insieme) un antefatto fantastico della sua storia di dago – così erano chiamati spregiativamente all’epoca gli italoamericani – di successo. L’antefatto riguarda la storia di come la sua famiglia decise di emigrare dalla Sicilia alla California. È la storia di un giovane pastorello che un giorno, all’insaputa di tutti, abbandona le sue pecore, raggiunge un porto e si imbarca per l’America. È la storia di come il pastorello, giunto negli Stati Uniti, affronta ogni genere di peripezie: lavora; patisce la fame; è adottato da una donna nera, che lo accudisce come un figlio; con l’inganno è fatto schiavo da un gruppo di giapponesi, che lo porta su un’isola di lavori forzati; riesce a fuggire con un amico dall’isola su un barchino e solo fortunosamente incrocia una nave che lo riporta sul suolo americano; qui decide di trasferirsi in California, da dove scrive ai familiari rimastai in Sicilia per invitarli a raggiungerlo in America, terra di abbondanza e prosperità.
Il racconto di come la stirpe dei Capra emigrò in America evoca una lunga tradizione narrativa: dal romanzo picaresco fino al cunto siciliano delle storie dei paladini (che chissà quante volte i Capra avranno ascoltato) passando per la Commedia dell’arte. Tutto avrebbe congiurato contro l’idea di emigrare in un paese dove ti capitano simili incidenti; eppure i Capra decidono di lasciare tutto ed emigrare, come in ogni romanzo d’avventura che si rispetti. Non era Francesco, da questo momento in poi Frank, quel figlio. Era suo fratello maggiore, che Frank all’epoca non conosceva, essendo nato dopo la sua scomparsa. (Il bello è che Ben, il fratello maggiore, esisteva sul serio: morirà alla fine del libro). Capra non si limita a raccontare la realizzazione del suo sogno: fa sì che quel sogno abbia origine in un altro sogno. Il che, se si vuole, ha una sua morale. Capra non «vende» mai al suo pubblico un prodotto preconfezionato. Sta dicendo che ciascuno di noi ha un sogno e cerca una terra dove realizzarlo.
Infatti nel racconto ci sono anche le difficoltà, le sconfitte, i dolori: c’è la vita vera. Capra è cresciuto in una famiglia povera. Quando, con molte fatiche, la famiglia sta per raggiungere la tranquillità e un relativo benessere, l’improvvisa morte del padre pone fine al sogno di gestire una fattoria e respinge tutti nella povertà. Frank, intellettualmente dotato, arriva fino all’università grazie a borse di studio e lavoretti. Diventa ingegnere. Qui si gioca il destino della sua vita. Dopo la fine della Grande Guerra, nessuno cerca ingegneri. Iniziano anni di difficoltà, incertezze, disoccupazione, a tratti disperazione. Finché Capra si ritrova a lavorare nel cinema, spacciandosi per regista con un vecchio attore di teatro, che vuole portare sullo schermo i grandi classici della poesia. Da questo inizio possiamo cogliere le diverse anime del personaggio che il regista costruisce abilmente nel libro. C’è Capra il furbo dago; il giovane di belle speranze, che si ritrova ad applicare la sua mente scientifica per inventare procedimenti di montaggio del sonoro quando questo sconvolge l’industria del cinema. C’è Capra l’immigrato, orgoglioso dell’amicizia con cui lo onora il mitico generale Marshall. C’è Capra il regista, che conosce e spiega il cinema. Definitivo è il giudizio, in un’ideale lista dei maggiori registi di sempre, su Ford: è il cinema. Quasi mitologico è il racconto dell’incontro semi-clandestino in uno squallido bar della periferia di Mosca con un Ejzenštejn stanco, disilluso, malato e assediato dalla censura staliniana.
Esordi come gag writer
L’aspetto forse più avvincente del libro va cercato nel racconto della Hollywood degli anni d’oro e delle sue successive trasformazioni. Capra entrò nel cinema come gag writer – dopo l’inizio picaresco appena ricordato – quando c’era ancora il muto. Era un mondo di cortometraggi prodotti in serie, alla continua ricerca di una novità per divertire il pubblico. Capra sarà poi il protagonista della grande Hollywood degli anni trenta e quaranta, cui ha regalato alcuni classici. E sarà poi il testimone del passaggio all’industria del cinema del dopoguerra, tutta concentrata sui divi e meno sui sogni che il cinema può regalare con le sue storie (e che lui smetterà di capire). Notevoli sono i ritratti di due tycoon del cinema, per cui Capra ha lavorato: Mack Sennett, il «re della commedia» del muto, e Harry Cohn, il fondatore della Columbia. Per il primo Capra ha lavorato come gag writer, per il secondo come regista. Attraverso le loro due figure si può leggere l’evoluzione del cinema hollywoodiano. Il primo è un irlandese, ex operaio, vanitoso, tirannico, ossessionato dall’idea che i gag writers vogliano mettersi a fare i registi. La sua qualità sta nel fatto, potremmo dire, che è lo «spettatore perfetto»: sa sintonizzarsi in modo naturale con i gusti del pubblico e non sbaglia un colpo nel giudicare gag e attori. Il secondo è un ebreo, venuto a Los Angeles dai sobborghi di New York per contendere alle major il controllo dell’industria cinematografica. La sua Columbia comincia con i film di serie b a basso costo e finisce per diventare poi una delle principali case di produzione di sempre. Con la Columbia Capra ha creato la maggior parte dei suoi capolavori.
Cohn, a differenza di Sennett, non è un eccentrico dandy del cinema. È un imprenditore senza scrupoli. Ma è anche – poteva essere altrimenti? – un profondo conoscitore di uomini e un attore consumato (per quanto leggermente melodrammatico) della vita. Il primo conosceva il pubblico, era un impresario di vecchia pasta. Il secondo conosceva i suoi uomini e la macchina, sempre più complessa, che ne muoveva il lavoro. Capra, attribuendosi il ruolo del piccolo genio, ha attraversato questo mondo, vincendo premi Oscar a decine e avendo come obiettivo che il suo nome nei cartelloni fosse scritto sopra il titolo del film. E non dimenticando mai che, in realtà, il suo primo sogno era quello di conseguire un dottorato in ingegneria al Caltech Institute.