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Frangi, due viaggi in battello, tra grafica e bibliografia

Frangi, due viaggi in battello, tra grafica e bibliografia«Showboat di Giovanni Frangi», Milano, Castello Sforzesco

Milano, Castello Sforzesco Pensata da Giovanni Agosti, «Showboat di Giovanni Frangi» descrive trent’anni di irrinunciabile, problematica fedeltà alla pittura attraverso un dispositivo obliquo, filologico e avventuroso

Pubblicato più di un anno faEdizione del 7 maggio 2023

Risale al 1981 una piccola acquaforte di Giovanni Frangi per L’aquila di Makana, la raccolta di sei poesie familiari di Giovanni Testori pubblicata dalla Compagnia del Disegno: raffigura l’aquila lignea intagliata nel Settecento sul pulpito della parrocchiale di Staffa, frazione di Macugnaga (Makanà in lingua walser), ai piedi del Monte Rosa, caro allo scrittore. È una piccola lastra di segni aggrovigliati – di poco posteriore a due d’aprés da Max Beckmann – e per un attimo vien da pensare a quanto abbiano pesato per lui, allora poco più che ventenne, le predilezioni figurative testoriane; e a quanto rapidamente abbia conquistato un proprio spazio di indipendenza stilistica fra – scrisse Testori dedicandogli una di quelle sei poesie – un «petalo di materia» e un «graffio di dura mina».

Parte da qui la mostra Showboat di Giovanni Frangi, pensata da Giovanni Agosti come un metaforico battello galleggiante di metà Ottocento destinato a spettacoli di varietà, attraccato fino al 25 giugno al Castello Sforzesco di Milano. Per fare un primo bilancio di oltre trent’anni di carriera, infatti, sono stati pensati due «viaggi», accompagnati da altrettanti cataloghi per le edizioni Magonza: un’Andata, nelle sale affacciate sul Cortile delle Armi, che antologizza in trentanove fogli il corpus grafico di Frangi dal 1978 in poi; e un Ritorno nella Sala del Tesoro della Trivulziana, all’ombra dell’Argo di Bramantino, con un ritratto bibliografico dell’artista fatto da cataloghi di mostre e copertine di libri, tutte numerate e commentate come in un catalogo di libri antichi, da 1 a 127.

Di fondo è un’idea semplice: non una selezione fior da fiore, come in una comune mostra antologica, ma due corpora interi offerti al visitatore e sottoposti a un’erudita acribia filologica, che nelle mani di Agosti si trasforma in un vero e proprio dispositivo espressivo. Fra mostra e cataloghi, infatti, si annidano intertesti letterari, cinematografici o teatrali, fonti alte e prelievi dalla cultura di massa, montati in una rete di allusioni e citazioni, talvolta con espliciti omaggi ai propri numi tutelari, facendo dell’autobiografia lo strumento per lo scandaglio di un tratto della cultura italiana che arriva al presente. È stato così per le mostre di arte antica curate da Agosti, lo è ancor più per le mostre di Frangi che punteggiano la loro lunga e fedele amicizia, e che hanno fatto del critico non solo un compagno di strada che registra evoluzioni e sommovimenti dello stile, ma un complice nell’ideazione di progetti complessi che hanno dischiuso per entrambi cortocircuiti inaspettati.

Il tracciato bibliografico, in questo caso, non solo restituisce un itinerario espositivo ed editoriale, né si limita a dare conto delle innumerevoli possibili forme che può assumere il libro d’arte nell’arco della vita di un unico artista, ma testimonia le occasioni in cui la vicenda di Frangi ha intercettato altre storie e i cantieri editoriali più diversi. Da una parte, infatti, ci sono gli esordi, scrive Agosti, «con il piede giusto: tra Giovanni Testori, in casa, e Achille Bonito Oliva, in galleria». Dall’altra, però, lo si incontra nel 1997 fra le monografie rilegate del primo Goldin (divise fra Electa e Marsilio), inserito in una compagine di artisti maturi, giunti allora alla stagione dei bilanci complessivi, fra romantici umori crepuscolari e malinconie di pianura. C’è poi un rinnovato sodalizio fra artisti e scrittori – con qualche sorpresa – tanto frequente in tutta la storia delle arti figurative nella pianura padana.

Bastano le copertine, al contempo, per cogliere un cambio di paradigma nella lettura del lavoro di Frangi e nell’evoluzione del suo percorso: fino alla svolta del millennio, egli viene letto esclusivamente come un puro pittore; dopo quel giro di boa, fra libri e cataloghi si esplicita l’idea di un artista che non disdegna usi installativi della pittura, i quali, stando alla veste grafica di alcune copertine, sembrerebbero condurre verso radicali scelte «poveriste» che forse non sono mai state del tutto nelle sue corde, ma che furono utili per non considerarlo un epigono della lunga tradizione lombarda.

È sufficiente infatti uno sguardo all’opera grafica, vero e proprio contraltare all’interno dello Showboat, per ristabilire le coordinate della modernità squisitamente pittorica di Frangi, «alle prese con la natura» nell’esplorazione del territorio circostante, ma pronto al contempo a salpare verso mete lontane. Egli non penetra nel folto della materia in cerca di un’arcadia rurale, ma fa i conti con un tempo e un immaginario nuovi, che impongono il colpo d’occhio d’impatto su vedute di largo respiro come «panorami», e affronta di conseguenza la calcografia senza pregiudizi, anche su grandi e non consueti formati: in una città dove a lungo si è affermato che la vera incisione fosse esclusivamente in bianco e nero, Frangi ha scelto le tinte più audaci, senza timore di rendere i tronchi degli alberi, il controluce dei giardini o le rocce piene e dense come macchie sulla lastra, con dei verdi e dei rosa «artificiali», non privi di risonanze e di «memoria» pittorica. E per fare questo si è rivolto in modo particolare a stampatori spericolati come l’udinese Corrado Albicocco, sotto i cui torchi sono passate alcune pagine cruciali dell’avanguardia italiana, da Vedova a Santomaso, da Kounellis a Tremlett.

Qui – dove sarebbe possibile stabilire ulteriori confronti trasversali– Frangi lavora con sapienza artigiana, ma senza farsene sopraffare, prediligendo quelle tecniche meglio assimilabili all’improntitudine pittorica, dalla maniera a zucchero al carborundum, accanto a distese di acquaforte per restituire l’effetto di strati di atmosfera, o di immersione liquida, o di memoria che si dissolve. Il segno è largo e strutturante, come componesse sulla carta con ampie pennellate materiche, ma ha la compattezza tattile dell’impressione sulla carta, con un’inedita gestione degli ampi e abbaglianti spazi bianchi, silenti e irreali come gli effetti di controluce e i forti contrasti tipici della sua ricerca.

La calcografia, con ferrea disciplina, obbliga alla sintesi, anche quando si tratta di stampare più lastre con inchiostrature diverse sullo stesso foglio, trasfigurando brani di natura e frammenti di città in caliginose solarizzazioni, o sottoponendole a progressivi affioramenti sottomarini. Eppure, nella metamorfosi dello stile, Frangi non solo ha conservato una innata freschezza istintiva, ma il suo percorso si presenta compatto e tutto teso a una ultimativa, irrinunciabile, amorosa fedeltà alla pittura.

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