Considerato a lungo come un esercizio poco edificante di aggressività incontrollata verso la teoria e la prassi psicoanalitiche – perché individuava un’intima contraddizione tra l’affidare la trasmissione del sapere psicoanalitico a una qualche istituzione (con il relativo carico di ideologia e di uniformazione al discorso del maestro di turno) e la necessaria dissoluzione del transfert a cui mira l’avventura analitica – il saggio di Francois Roustang, Un destino sì funesto (a cura di Luigi Francesco Clemente e Franco Lolli, Orthotes, pp. 205, € 20,00 )  sostiene che affidarsi passivamente ai concetti altrui, evitando il rischio di un’invenzione teorica in prima persona, comporta il soggiacere a sentimenti di dipendenza nei confronti di una figura considerata sapiente e investita di sottili proiezioni inconsce. Le società psicoanalitiche figurano, nella considerazione dell’autore, come organizzazioni pericolosamente affini alla Chiesa e all’esercito.

Datato 1976, il testo di Roustang stimolò grandi controversie nel mondo psicoanalitico, prima di essere dimenticato, probabilmente grazie alla sua segnalazione degli esiti tragici cui porterebbe l’idealizzazione dei maestri (in questo caso di Sigmund Freud). La «teoria analitica» è – secondo l’autore – «condannata all’invenzione. È sempre sul punto di farsi. » Conformarsi passivamente alla lezione dell’autorità – per esempio procedendo senza autonomia sulla via già tracciata da qualche pioniere riconosciuto (Roustang allude, vista la propria formazione, anche  a Lacan) – implica spegnere sul nascere la libertà sovversiva dell’inconscio, del desiderio e di una teorizzazione che dia forma al pensiero muovendo dalla potenza dell’evento analitico, sempre eccedente rispetto al discorso istituzionalizzato.

La sensazione, nel leggere con uno sguardo contemporaneo i nodi critici evidenziati da Roustang, è che la posta in gioco sia qui la possibilità – non solo per la psicoanalisi – di esodare dalla gabbia di discredito assegnata a quegli slanci della conoscenza che non intendano soggiacere ai criteri di controllo, prevedibilità e legittimazione che i saperi scientifici moderni portano con sé.

Non a caso, Roustang ricorda come la psicoanalisi non possa essere considerata una scienza al pari di altre, questione che ovviamente non legittima le sue eventuali derive in misticismi oscuri. Ciò che risulta perturbante in questo testo, che si propone oggi a un pubblico assai diverso da quello degli anni in cui venne scritto, sta nel fatto che avendo la psicoanalisi nel corso degli ultimi decenni perso gran parte del proprio status culturale, decine di interventi «terapeutici» ne hanno preso il posto, denunciando la crisi di questa contingenza connotata da confusione, ansia e sfiducia epidemiche. In una fase storica nella quale la ricerca del senso esige la messa in discussione delle chiusure specialistiche, mentre è ovviamente già da tempo decaduta la contrapposizione tra scienze naturali e discipline umanistiche, si rende necessario, dentro e oltre il perimetro della psicoanalisi, ripensare il rapporto tra teoria, pratica e posture esistenziali. Quel che Roustang ci suggerisce è, in definitiva, riconoscere al proprio pensiero i debiti con chi lo ha preceduto senza tuttavia appassire nel giardino dell’ubbidienza.