François Hartog, quel solipsismo che può fagocitarci
ITINERARI CRITICI Intervista allo storico francese, lunedì ospite a La Sapienza di Roma. Ha rinnovato l’epistemologia della storia, riflettendo sull’evoluzione del nostro rapporto con il passato. «Quando il futuro ha perso la sua forza di attrazione e ogni ritorno a ciò che è stato, inteso come modello e portatore di lezioni, è diventato impossibile, è rimasto solo il presente. C’è un "presentismo" sofferto o forzato, quello di tutti coloro per i quali il progetto è vietato, cioè i disoccupati, i migranti, spesso giovani che vivono alla giornata»
ITINERARI CRITICI Intervista allo storico francese, lunedì ospite a La Sapienza di Roma. Ha rinnovato l’epistemologia della storia, riflettendo sull’evoluzione del nostro rapporto con il passato. «Quando il futuro ha perso la sua forza di attrazione e ogni ritorno a ciò che è stato, inteso come modello e portatore di lezioni, è diventato impossibile, è rimasto solo il presente. C’è un "presentismo" sofferto o forzato, quello di tutti coloro per i quali il progetto è vietato, cioè i disoccupati, i migranti, spesso giovani che vivono alla giornata»
François Hartog ha creato concetti familiari come il «presentismo». Ha rinnovato l’epistemologia della storia riflettendo sull’evoluzione a lungo termine del nostro rapporto con il passato, dagli storici dell’antica Grecia a quelli del XIX e XX secolo. In dialogo costante con l’eredità di Reinhart Koselleck, la sua opera oggi è particolarmente utile per comprendere i significati di un’espressione ricorrente come l’«Antropocene», i suoi legami con l’attuale cultura apocalittica e le lotte in Francia contro la riforma delle pensioni.
«Il presentismo – ci spiega Hartog – si è affermato quando siamo passati da una rappresentazione del tempo come un futuro aperto, cioè inteso come processo e guidato dal progresso, a una del futuro che si chiude. Così il presente tende a diventare l’unico orizzonte. Fino al punto da non avere futuro! È quello che ho chiamato presentismo, cioè un presente onnipresente che fagocita, per così dire, il futuro e il passato. Un presente solipsistico che produce giorno dopo giorno il futuro e il passato di cui ha bisogno».
Cosa distingue questo «presentismo» da analoghe esperienze del tempo storico già vissute nel passato?
Se è vero che ogni società ha sempre avuto solo il suo presente, il presente del presentismo contemporaneo è diverso da quello degli stoici o degli epicurei per i quali era necessario vivere ogni giorno appieno come se fosse l’ultimo. Il nostro presente è emerso dal crollo di quello che chiamo il «moderno regime della storicità».
Quando il futuro ha perso la sua forza di attrazione e ogni ritorno al passato, inteso come modello e portatore di lezioni, è diventato impossibile, è rimasto solo il presente. Un presente che, pur non essendo quasi nulla, tendeva a diventare perpetuo, tentava di essere il proprio orizzonte. Era necessario non solo vivere con i tempi, ma vivere nel presente. Sono così fioriti slogan come «il futuro comincia adesso». Un modo per dire che in realtà conta solo il presente.
Lei sostiene anche che non c’è un solo presentismo, ma diversi. Quali sono gli altri?
Man mano che il presentismo ha guadagnato terreno, si è diversificato. Non esiste un solo presentismo, e non è affatto uguale per tutti. C’è un presentismo sofferto o forzato, quello di tutti coloro per i quali il progetto è vietato, cioè i disoccupati, i migranti, spesso giovani che vivono, a volte realmente, alla giornata. All’altra estremità dello spettro, c’è un presentismo scelto e valorizzato, quello di coloro che sono stati chiamati i vincitori della globalizzazione, cioè gli agili, i mobili, i flessibili, i connessi. Quello dei bei tempi andati della globalizzazione e del neoliberismo. Senza contare il fatto che oggi siamo passati all’immediatezza dei social network, a un presentismo dell’istante e, al limite, del nanosecondo, quello dei computer e della finanza.
Il Covid avrebbe potuto fare esplodere la bolla presentista, obbligando a guardare al di là del nostro naso, e dei profitti che si fanno sul catastrofismo. Perché questo non sembra essere avvenuto?
Il Covid ha avuto un doppio effetto: da un lato, ha messo in discussione il presentismo. Il confinamento è stato un momento di sosta e un’occasione, per alcuni, di riflessione. Perché, in effetti, bisogna vivere sempre in un’urgenza presentista? Quell’esperienza ha anche dimostrato i limiti del «just in time»: il non avere scorte. Ma cosa si può fare quando tutti ordinano mascherine dalla Cina nello stesso momento? Il Covid ha però rafforzato ulteriormente il presentismo attraverso i social network e le piattaforme digitali da Google a Amazon, Facebook o Twitter e Apple. Tutto a casa in pochi clic, a condizione che i fattorini siano pagati una miseria e pedalino per voi. Il Covid ha anche esacerbato il presentismo, sotto forma di moltiplicazione delle emergenze. E se c’è un’emergenza, è già quasi troppo tardi. Urgenza, ritardo e accelerazione formano un trio infernale che genera «rabbia». Se tutto è urgente, come possiamo dare priorità alle emergenze? Sono più di due anni che viviamo in uno stato di emergenza sanitaria.
Il presentismo è anche un’esperienza del cambiamento della produzione capitalistica?
Naturalmente. Non cade dal cielo, né può essere staccato da tutti i movimenti e le trasformazioni delle società. È una traduzione temporale. È certo che il passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario ha a che fare con l’ascesa del presentismo. Stiamo passando dal lungo o medio termine al breve o brevissimo termine.
Cerchiamo una redditività immediata, o addirittura quasi istantanea nel caso dei mercati finanziari. È così che abbiamo visto la deindustrializzazione, in particolare in Francia, diffondersi a grande velocità. È così che abbiamo visto i politici diventare presentisti. Fino a raggiungere il grado zero della politica, quello che si fa con i tweet. Trump è stato, ahimè, un precursore e un maestro in questo campo.
La lotta contro la riforma delle pensioni in Francia non è il sintomo di un’altra concezione del tempo della vita?
Questa riforma può essere esaminata da diverse angolazioni. La questione del rapporto con il tempo è centrale. Cambiare l’età pensionabile significa stabilire un nuovo corso per la vita, fissare un nuovo orizzonte, in questo caso spostandolo indietro. L’averla fissata una volta a 60 anni ha reso molto difficile tornare indietro. E il tentativo di farlo mobilita immediatamente molte emozioni. Non sorprende che le argomentazioni razionali non siano convincenti, sia che ci si appelli all’aumento dell’aspettativa di vita, sia che ci si appelli alla demografia. In una società che invecchia, il sistema pensionistico a ripartizione diventerà insostenibile. Siamo passati da quattro lavoratori per un pensionato all’inizio a 1,7 oggi e finiremo per avere un lavoratore attivo per un inattivo. Inoltre, il pensionamento non è più presentato come l’inizio della vecchiaia e dell’ozio, ma come l’accesso al tempo per se stessi. Non so fino a che punto questo sia un sentimento comunemente condiviso, ma è chiaro che il discorso circola e che l’industria del tempo libero sa come sfruttarlo.
In una società della performance che spazio ha l’invecchiamento?
Ne ha poco o nessuno. Se, da un lato, si tende a dissociare la pensione dalla vecchiaia, dall’altro lato l’innalzamento dell’età pensionabile fa tornare lo spettro della vecchiaia. A 64 anni sarò ancora un giovane pensionato? E può una riforma pensionistica concepita e attuata in un contesto presentista sfuggire a tutto ciò? Per il governo Borne, abbandonare una riforma sistemica, quella presentata nel 2019, per una riforma parametrica, quella attuale, significa tenere conto solo del breve termine. Già sappiamo che ne servirà un’altra tra qualche anno. Per i cittadini, significa non riuscire a vedere oltre il presente, quello della «mia» pensione, e non riuscire a proiettarsi verso chi verrà dopo e su cui ricadrà un fardello pesante, forse troppo pesante.
Quello che vediamo in Francia è un altro modo di pensare, e praticare, il kairos inteso come conflitto sociale?
Sono tutte azioni che fanno certamente parte di un kairos, un’opportunità da cogliere, ma un kairos per un regime presentista, un piccolo kairos, nel formato dei social network e dei canali di informazione continua. Quello che mi colpisce negli attuali conflitti sociali, che a volte sono violenti, è che si tratta di tattiche, di comunicazione, di diffusione di immagini, tutte molto rapide, in emergenza. Ma di strategia, di visione a lungo termine, non vorrei sbagliarmi, non ne vedo molte. Questo vale tanto per il governo quanto per i militanti, i partiti o ciò che ne rimane.
In queste lotte non c’è anche una sfida al sistema basato sulla precarietà, e quindi in generale contro la riduzione del tempo al presentismo?
Sì, ha ragione, è un modo interessante di vedere il fenomeno della «uberizzazione», quel sistema in cui ti dicono che noi forniamo il lavoro, ma tu sarai il tuo padrone, non sarai un dipendente. Solo che non siete voi a stabilire la retribuzione delle gare. In questa idea del contratto di lavoro si può vedere il legame tra l’individualismo spinto al limite (il vostro successo è nelle vostre mani) e il presentismo.
Ogni giorno, tutto deve essere rifatto: bisogna avere sempre il telefono in mano e, per il cliente, il costo della commissione varia a seconda del momento. Qua e là, Uber si è trovata costretta a tornare al lavoro salariato, un tempo dichiarato obsoleto. Più in generale, l’estensione del «precariato» è, di fatto, una modalità di lavoro presentista.
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SCHEDA. Breve profilo bio-bibliografico
Françis Hartog, storico e direttore emerito degli studi nell’«Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales» (Ehess) di Parigi, sarà ospite a Roma lunedì 27 per partecipare alla settima edizione dei dialoghi sull’Europa, all’università La Sapienza (che si svolgono dal 27 al 31 marzo), co-organizzato anche dall’Istituto Francese di Cultura. Sempre lunedì 27 presenterà il suo ultimo libro «Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo» (Einaudi) alla Libreria Spazio Sette in via dei Barbieri alle 18. Tra i suoi numerosi volumi, sono tradotti in Italia «Lo specchio di Erodoto» (il Saggiatore); «Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nell’antica Grecia» (Einaudi); «Regimi di storicità» (Sellerio).
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