Scompare con Franco Serpa (lo scorso 9 settembre a Roma, dove era nato il 26 agosto 1931) un grande uomo di cultura e un insegnante che ha svolto al livello più alto il suo ruolo. Fortemente convinto della funzione civile della scuola, fu un esempio di come si può, si dovrebbe, credere e investire nella scuola per farne uno strumento capace non solo di arricchire il patrimonio culturale di ognuno ma, soprattutto, di migliorare la qualità della vita e dei rapporti sociali, diciamo pure il grado di civiltà di una comunità e di un paese.

La sua curiosità e generosità intellettuale e umana lo hanno reso amico e interlocutore di alcuni protagonisti della vita culturale della seconda metà del secolo scorso, e il prestigio intellettuale della sua figura derivava certo anche dall’aver conosciuto personalmente, o in alcuni casi dall’aver avuto una lunga frequentazione e amicizia, con alcuni mostri sacri del Novecento, da Maria Callas a Igor Stravinskij ad Arturo Toscanini a Ingeborg Bachman, Elsa Morante, la pittrice Titina Maselli, o il compositore Hans Werner Henze. Con quest’ultimo, che gli dedicò la rielaborazione del Ritorno di Ulisse in patria monteverdiano per il festival di Salisburgo (1981), e di cui ha prefato il volume In nessun tempo. Hans Werner Henze: diari, saggi e interviste (Libreria Musicale Italiana 2019), ha collaborato in numerose occasioni, non solo come consulente su alcuni temi della cultura classica, soprattutto il mito, centrali nell’opera del grande musicista tedesco ma anche scrivendo testi per varie sue composizioni.

Allievo di Pontani e Paratore

Formatosi in filologia classica all’università di Roma (come allievo di Perrotta e Paratore, e già di Filippo Maria Pontani al liceo), appena laureato si dedicò all’insegnamento, per cui aveva una vocazione e un’attitudine speciale. Iniziò giovanissimo la sua attività, dispiegatasi poi in varie sedi: prima come supplente nei licei classici di Roma (dove suoi allievi furono, tra molti altri, Ernesto Galli della Loggia, che ne ha ricordato la scomparsa sul Corriere della Sera, e Raffaele Romanelli) per passare dal 1963 al 1966 al liceo Varrone di Rieti, e poi, per un biennio, all’Istituto italiano di cultura di New York. In Italia tornò, dopo quella parentesi, per dedicarsi di nuovo all’insegnamento, nell’autunno del ’68, e fu nel liceo classico Jacopone di Todi. A Todi (che in una conversazione su Rai Radio 3 incluse, insieme a New Tork e Trieste, tra le sue ‘città della vita’) era in realtà arrivato una prima volta all’inizio degli anni sessanta, e vi aveva avuto come scolari, avviandoli a diventare quello che poi furono, la poetessa Patrizia Cavalli (1945-2022), cui non risparmiò una bocciatura che non avrebbe affatto compromesso i loro rapporti futuri, cementati anche dal comune sodalizio con Elsa Morante, e un fine musicologo e latinista, anche lui, come Marco Grondona (1946-2019). Lasciata Todi tornò (nel ’73) a insegnare a Roma (al liceo Socrate) e dal ’75 a Trieste, dove oltre che al liceo Petrarca insegnò a lungo, fino al pensionamento, Letteratura latina alla Facoltà di Lettere dell’università (tenendovi anche numerosi corsi di Storia della musica).
Come insegnante di liceo era severissimo (come oggi non sarebbe nemmeno immaginabile), ma sapeva conquistarsi il rispetto e l’ammirazione degli studenti tutti, anche delle molte vittime dei suoi votacci, consapevoli che era comunque un’esperienza rara e un grande privilegio essere suoi scolari, e di trovarsi di fronte una personalità fuori del comune e tutt’altro che confinata in un universo libresco o polveroso (un sospetto fugato già dal solo vederlo alla guida di una fiammante Triumph Spitfire verde). Le sue lezioni erano ascoltate in un silenzio quasi religioso: le preparava, evidentemente, con grande scrupolo professionale, e leggeva i suoi autori col sussidio di una bibliografia ricca e aggiornata, ma opportunamente filtrata e ‘risparmiata’ ai giovani ascoltatori (fatta qualche eccezione per la menzione dei nomi di alcuni grandi, ad esempio Giorgio Pasquali, di quelli che «non vi dimenticherete più»), rifuggendo comunque da qualunque tecnicismo o gergo iniziatico, il famigerato critichese; convinto com’era che i grandi testi (letterari, artistici, musicali) vanno conosciuti e vissuti dai ragazzi, a quell’età, come un confronto diretto, immediato e capace di coinvolgere non solo intellettualmente ma anche e soprattutto emotivamente le loro menti fino a imporsi come una vera rivelazione, spesso capace di far emergere una vocazione per la vita, o comunque tale da risultare un ‘acquisto per sempre’.

Se l’insegnamento delle discipline classiche è stato il terreno principale della sua attività, non si può certo mettere in secondo piano quella di musicologo, che lo ha reso largamente noto e apprezzato dal pubblico dei maggiori teatri italiani (a cominciare dalla Scala) per le conferenze e per i numerosi saggi scritti nei relativi programmi di sala sugli autori da lui più amati: su tutti Wagner, Strauss (per cui rivendicava un apprezzamento precoce e convinto, a fronte della diffidente sufficienza che accompagnò a lungo la sua ricezione critica) e Puccini. Un classicista quindi in primo luogo, ma tutt’altro che chiuso nell’orizzonte o nel culto feticistico del passato, e anzi aperto alla cultura moderna nelle forme più varie. La sua cultura non aveva nulla di ascetico, non era un abito confezionato o esibito, era un modo di essere, un naturale stile di vita, capace di renderla più intensa e profonda, e di farne gustare meglio i piaceri.

La polemica Nietzsche-Wilamowitz

La sua bibliografia (ma come Socrate più che allo scritto preferiva affidare il suo insegnamento soprattutto alla parola) riflette i suoi interessi più vivi. Se nel campo degli studi classici il suo lavoro più noto è Il punto su Virgilio (Laterza 1987) – un volume sulla storia della critica virgiliana del Novecento che seppe suscitare il vivo apprezzamento di un virgilianista esigente come Nicholas Horsfall –, un crocevia rappresentativo dei suoi interessi più profondi, e un capitolo notevole di storia della cultura, è La polemica sull’arte tragica, pubblicata da Sansoni nel centenario (1972) della Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche: l’opera prima del giovane filosofo, docente di filologia classica a Basilea, che aveva suscitato la reazione indignata del mondo accademico rappresentato dall’astro nascente Wilamowitz, e attorno a cui si accese un dibattito, che il volume ricostruisce, cui parteciparono Erwin Rohde e lo stesso Wagner. La grande cultura tedesca tra Ottocento e Novecento è infatti uno spazio cruciale delle passioni intellettuali di Serpa: oltre ad aver curato gli scritti artistici e musicali di Schopenhauer (Discanto edizioni 1981), ha tradotto e curato l’intenso carteggio tra Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal (Epistolario, Adelphi 1993), due artisti dalla cui complessa collaborazione nacquero alcune tra le opere da lui più amate. Tra le quali tradusse in italiano per le edizioni del Teatro alla Scala Arabella (’91), Il cavaliere della rosa (’92, poi Adelphi) ed Elettra (’93), e per altri teatri La donna senz’ombra (’93), Arianna a Nasso (’97) e Elena egizia (2001); un’altra traduzione importante è quella dell’amatissimo Tristan wagneriano (2003). La passione per la musica, in particolare per l’opera, lo aveva del resto accompagnato fin dall’infanzia; molto vicino a Fedele d’Amico (di cui ha curato per Einaudi la raccolta di saggi Un ragazzino all’Augusteo, 1991), fu giovanissimo collaboratore della sezione musicale della Enciclopedia dello Spettacolo, e alla musica dedicò la maggior parte dei suoi lavori anche saggistici (in parte raccolti in Miti e note. Musica con antichi racconti, EUT Trieste 2009, insieme a una bibliografia dei suoi lavori aggiornata a quella data).

Nonostante un orizzonte culturale di riferimento e di frequentazioni personali così alto, rifuggiva da ogni forma di alterigia e detestava anzi le ostentazioni di boria sociale ancora frequenti nella piccola Italia dei decenni post-bellici, che spesso irrideva ricorrendo a qualche battuta del suo prediletto Totò («parli come badi»), o ritrovandone certi tipici tic di psicologia sociale nei romanzi di Achille Campanile. Amante dei più grandi, nella letteratura e nella musica (Eschilo, Orazio e Virgilio, Dante, Leopardi, Wagner), comprendeva tuttavia nel suo pantheon personale figure spesso ritenute minori come il Belli, e al culto, ovviamente, per l’opera di Gadda affiancava l’apprezzamento, ad esempio, per la leggerezza delle poesie di Toti Scialoja: molte ispirate da quell’amore per gli animali, i gatti in particolare, e la loro grazia che condivideva. Le sue lezioni sui testi greci e latini erano spesso illuminate da riferimenti a scrittori della cultura moderna (da Hofmannsthal a Yeats a Kavafis a Thomas Mann così come al grande teatro musicale), e il suo insegnamento si allargava così a un’apertura sul mondo guardato con l’occhio ironico e curioso della realtà in tutti i suoi aspetti. Mosso com’era dall’esigenza, direi filologica, della precisione e dell’esattezza, si trattasse di una citazione d’autore o della ricetta del Martini, detestava l’approssimazione e la faciloneria, in tutti i campi, così come non nascondeva la propria idiosincrasia di fronte all’occasionale emergere, magari nel corso di un’interrogazione in classe, di quella ‘lingua di plastica’ che si sarebbe progressivamente affermata nella scrittura e in tante sfere della comunicazione, fino a dilagare nel linguaggio dei social media (un anglismo tra i tanti che avrebbe aborrito).

Se, come recita il celebre detto, ‘si ha quel che si è donato’, allora Franco Serpa è uomo che dalla vita ha avuto moltissimo, nella gratitudine di tanti suoi allievi per i semi che ha gettato nella loro vita facendone germogliare le vocazioni più varie: se il numero maggiore è forse tra i classicisti (molti di loro sono attivi nelle scuole superiori, altri all’università), la germanistica e le letterature moderne, la storia della filosofia, la musicologia, o la storia dell’arte, così come il giornalismo, sono alcuni tra i tanti settori in cui essi hanno trovato un loro spazio professionale. Ma al di là del magistero diretto, Serpa è stato maestro di tanti che suoi allievi non sono stati, e che tuttavia hanno potuto apprezzare nelle sedi e occasioni più varie la generosità con cui elargiva i doni della sua cultura e della sua umanità.