Cultura

Franco Rella, vie di scampo nei «territori dell’umano»

Franco Rella, vie di scampo nei «territori dell’umano»Paul Klee, foto Ansa

RITRATTI Morto a Rovereto, all’età di 79 anni, il filosofo e professore di Estetica allo Iuav di Venezia. Molti i riferimenti: da Benjamin ad Adorno e Canetti, da Proust a Kafka, Flaubert e Melville. Nella propensione a non eliminare gli opposti, a vivere la tensione fra le contraddizioni, nello stare sulla soglia tra visibile e invisibile, si avverte la lettura di Simone Weil.

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 luglio 2023

A questo tempo dell’Occidente globalizzato incluse le sue banlieues, alle avventure dei pensieri e dei corpi nelle «soglie dell’ombra», alle domande filosofiche originarie su eros morte e violenza al di fuori dei territori del neutro, allo sguardo sulle crepe dell’esistenza – fenditure del pathos, ferite che aprono varchi –, alla passione per l’indicibile e alla resistenza del dicibile, all’inventario dell’arte nel suo posizionarsi all’incrocio dei tempi giacché non progredisce né regredisce, il filosofo e saggista Franco Rella ha prestato la sua attenzione fin dalla seconda metà degli anni Settanta con acribìa e sagacia disseminando gli esiti del suo approccio filosofico-estetico e esistenziale in una miriade di libri, dalla saggistica alla narrativa, dalle introduzioni alle traduzioni.

Non è una forzatura asserire che dai primi agli ultimi scritti spicca l’inclinazione esplicita di Rella per la scrittura filosofica non sistematica, frammentaria (da Benjamin a Simone Weil, da Adorno a Canetti) e per le esperienze di scrittura estreme (da Proust a Kafka, da Flaubert a Melville), così come balza agli occhi il privilegio da lui accordato ai poeti diletti (da Rilke a Valéry, da Saba a Montale) e agli artisti che scardinano le finestre temporali (da Dürer a Klee, da Cézanne a De Chirico).

Nella sua concezione-visione infatti emerge con nettezza che la vera «grande arte è resistenza perché legittima tutte le ipotesi possibili, e si contrappone organicamente e strutturalmente a un’unica interpretazione coattiva del reale, che è propria dei regimi politici»; essa coltiva l’amore «per la differenza fino al punto da rendere impensabili carri armati che rendono tutti uguali», è «un linguaggio che ha cura delle differenze che abitano sulla Terra».

LA GRANDE ARTE si colloca in definitiva negli interstizi tra la percezione del reale e i concetti, apre alla ragione immaginale in atto che fa transitare sulle soglie del visibile e attraverso lo spigolo del visibile «ci rende percepibile l’invisibile», ciò che sta oltre il confine, basta pensare alla siepe di Leopardi o all’immagine della mela di Cézanne. Tutto questo vale, ripete con ossessiva insistenza Rella, per le emozioni come per le passioni e per i pensieri.
Colpisce a questo proposito ciò che Rella afferma nel corso di un’intervista degli anni Novanta riguardo al rapporto tra maschile e femminile: «O è morte della differenza nel possesso, oppure è la scoperta di una divisione e di una separazione invincibili e insormontabili», cogliendo così dal punto di vista maschile un pensiero che si affaccia su una contraddizione irrisolvibile, un vicolo cieco. Non resta dunque a suo giudizio che seguire l’insegnamento di Simone Weil, «una delle intelligenze più acute di questo secolo»: di fronte a un vicolo cieco, quando si è alle prese con una contraddizione irrisolvibile, «siamo allora di fronte alla parte (probabile refuso per porta, ndr) che vale la pena aprire» – dopo un tempo indefinibile di attesa immobile, mi sia consentito aggiungere, la porta si apre da sé e non per volontà nostra.

Nella propensione a non eliminare gli opposti, a vivere la tensione fra le contraddizioni, nello stare sulla soglia tra visibile e invisibile, si avverte la lettura dell’opera di Simone Weil da parte di questo grande pensatore della modernità, proteso a mettere in dialogo filosofia, letteratura, arte e a non stabilire più alcuna gerarchia fra le tre discipline anche attraverso la ricerca di uno stile consono a questa sfida. C’è un libro di Rella a me particolarmente caro nel quale egli indaga filosoficamente e investiga narrativamente ogni traccia dall’antichità remota alla modernità che accosti all’enigma della bellezza. Vi emerge un altro dei leitmotiv della sua ricerca filosofica: nelle parole di Simone Weil, l’irriducibilità della bellezza connessa al radicamento nell’assenza di luogo, nell’«assumere il senso di essere in patria mentre si è in esilio», una condizione che permette di incontrare il reale «che è essenzialmente contraddizione», uno stare sulla soglia disponibili all’attenzione e all’attesa che equivale all’accettazione dell’esilio proprio e dell’esilio altrui; nelle parole di Benjamin, un dimorare nel Tempo-ora, in un «tempo carico di tempo, nell’istante».

AL PENSIERO della bellezza si contrappone il pensiero della forza che spegne ogni scintilla dell’umano, ogni alterità e ogni differenza, reificando vincitori e vinti e riducendo a deserto inospitale ogni milieu edificato nel corso dei secoli e ogni habitat naturale.
In uno dei suoi ultimi libri, Territori dell’umano, Rella si confronta con i meccanismi della forza, quindi con i meccanismi del potere, in esercizio nella nostra contemporaneità, attraverso una disamina della mitologia delle tecnoscienze, delle biotecnologie legate a un immaginario maschile e tese a sormontare il limite della datità del nostro essere umani, ovvero mortali, e ad alimentare l’illusione di una realizzabile liberazione dal peso del corpo, della carne, del dolore, della sofferenza. L’ebbrezza del pensiero della forza, della hybris nelle sue manifestazioni odierne appare inarrestabile e si spinge fino a voler cancellare i tratti dell’umano cancellando così l’intera umanità.

LA LEZIONE DI RELLA è orientata alla salvaguardia dell’umano dall’invadenza dei sogni dei potenti, alla sottrazione al potere attraverso una partecipazione distante agli eventi del mondo, ad accettare inermità, caducità e vulnerabilità come un tesoro da custodire. Con un certo disincanto, è vero, che non cancella tuttavia la fiducia nei confronti del nostro essere al mondo e non chiude la porta all’alterità.

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