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Franco Nero, i volti del cinema

Franco Nero, i volti del cinema

Intervista L'attore si racconta a partire da «Giorni Felici», suo ultimo lavoro da protagonista con la regia di Simone Petralia

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 20 gennaio 2024

Ci passeresti le giornate ad ascoltare Franco Nero che racconta il cinema, i mille aneddoti che generosamente dispensa. Come quando di fronte all’ennesimo ritardo di Sergio Corbucci gli chiese «Sergio, c’è tutta la troupe in attesa da due ore che stiamo aspettando?» «Che mi venga un’idea per iniziare a girare, ma io proprio non c’è l’ho, andiamo al bar a farci un caffè» iniziava a girare dopo le due, ma a fine giornata aveva comunque portato a casa tutte le scene del programma e non sapevi come. O di quando rifiutò Il Giardino Dei Finzi-Contini con la regia di De Sica, perché già aveva accettato di girarlo per Valerio Zurlini, rimpiazzato d’imperio dalla produzione perché: «Avevo già dato la parola a Zurlini, e in questo lavoro bisogna essere leali».

Ma è su Giorni Felici, suo ultimo lavoro da protagonista con la regia di Simone Petralia, che ci concentriamo in questa breve intervista, un dramma dai risvolti sentimentali rarefatto e sospeso che tocca temi difficili come la malattia e l’eutanasia fuor d’ogni cascame retorico o pietistico e che muove sul filo di una non scontata riflessione metafilmica sul linguaggio e sulla professione del cinema.

Antonio e Margherita sono due attori che hanno superato la settantina, il loro amore sembrava terminato tanti anni prima, ma quando ad Antonio viene comunicato che lei si è ammalata di SLA accorre per accudirla, perché l’amore non finisce. Margherita gli chiederà di staccare la spina delle macchine che la tengono in vita, ed è qui che il film troverà la sua chiave di lettura morale, una riflessione a 360° sul senso e sui limiti del sentimento amoroso e sul valore della vita, ma anche sul significato del cinema, dato che Antonio troverà il modo di superare il trauma della morte, dell’assenza di Margherita portando a termine il suo film eternamente incompiuto sulla loro storia d’amore rendendola immortale.

Dal Blockbuster fantascientifico multimilionario di Jon Wick al film di un talentuoso quasi esordiente, Simone Petralia, passando per il cinema super-cult di Schnabel, raccontami questa «trasversalità» di dimensioni
Ho sempre seguito i consigli che mi hanno dato due amici di quelli carissimi tanti anni fa.
Lawrence Olivier una volta mi disse : «Con il tipo di fisico che hai puoi fare sempre parti da eroe dei film americani, il protagonista assoluto. Ti fai uno o due film all’anno di quelli che incassano molto al botteghino. Carriera e popolarità assicurate. Oppure scegli di fare «l’attore», l’attore vero con tutti gli alti e soprattutto i bassi che comporta lo sperimentarsi in mille personaggi diversi. Ma solo così potrai restare autentico». E io gli ho sempre dato retta: dal film per bambini, alla commedia musicale, il film di impegno politico alla commedia sentimentale, la fantascienza, il film storico, il western all’italiana e all’americana, i polizieschi, ho cercato sempre di sperimentare tutte le mie possibilità espressive e non «accomodarmi» mai in una comfort zone. E poi ho sempre dato retta a Mastroianni, che mi ripeteva: «Quando reciti devi divertirti sempre, sennò diventa un lavoro», quindi ho sempre fatto scelte che privilegiassero il mio piacere di interpretare, il mio interesse, rispetto alle scelte strategiche di carriera.

È per questo bisogno di divertimento e di cambiamento, che mi interessano tanto un progetto enorme come In The Hand Of Dante di Schnabel, che ha un cast con nomi come Al Pacino, Scorsese che recita, John Malkovich, Gerarld Butler, Oscar Isaac come protagonista, Jason Mamoa, che sono nomi internazionali, ma anche attori stimolanti e geniali con cui lavorare, quanto mi interessa il progetto di un giovane dal talento purissimo come Simone, che ha dimostrato oltre al talento una personalità cinematografica molto matura a dispetto dell’età. Guarda che la sua posizione era difficile. Confrontarsi con un attore dall’esperienza lunga come la mia, che ho fatto, credo, circa duecentoquaranta film, significa non potersi permettere incertezze.

Se il regista si dimostra incerto e attacca coi: « Proviamola così, no cosà, no era meglio prima, ricominciamo, eccetera» inevitabilmente finisce che con la tua esperienza, con tutto quello che hai imparato sui set, anche non volendo, lo scavalchi e la regia gliela fai tu, gli fai capire come condurre le scene. Simone, invece, nonostante l’età, ha sempre avuto idee forti, una direzione ben chiara che orientasse tanto le scelte di noi attori che gli aspetti stilistici delle scene e delle riprese e, credimi, non è scontato.

Come è nata la vostra collaborazione?
Senza un soldo in tasca Simone mi ha proposto la sceneggiatura credo quattro anni fa. Temi importanti, bei personaggi, un grande sentimento. Il talento mi è parso chiaro da subito e gli ho detto che appena avesse trovato il finanziamento avrebbe potuto contare su di me. Poi Simone è stato bravissimo a tenermi «sul pezzo», coinvolgendomi sempre nel progetto, consultandomi anche su scelte importanti, come quella dell’attrice. Anna (Galiena) gliela ho suggerita perché avendoci lavorato so come recita e mi sembrava perfetta per una parte così delicata ma forte dal punto di vista emotivo, come quella di Margherita, e a quanto pare ci ho visto giusto, dato che poi Simone la ha scelta.

Tornando ad Antonio: è una parte che prevede molte lunghe inquadrature e primi piani muti, in cui l’emotività del personaggio passa tutta dal volto.
Inizialmente Antonio si sente a disagio in quella casa, Margherita non lo vuole lì ed è la padrona di quell’ambiente, quindi è più lei che si esprime verbalmente, lui sta in posizione più chiusa e introspettiva. In più ha scene in cui deve esprimere emozioni molto forti, il grande amore, la tremenda incertezza del dover fare una scelta terribile quando Margherita gli chiede di staccare il respiratore, ecc. Sono emozioni talmente forti che anche nella realtà si esprimono spesso nel silenzio, ci lasciano senza parole. In fondo credo che sia questa la vera difficoltà del cinema, la sua unicità, il riuscire a trasmettere il personaggio anche in assenza della parola, riuscire ad avercelo tutto sulla faccia. Nel 2010 ho fatto Angelus Hiroshimae, di Giancarlo Planta interamente senza una parola, e registi come Quentin (Tarantino) e Mazursky sono venuti a dirmi che lo hanno trovato da Oscar proprio per il tipo di ricerca di un’espressività totale , che riuscisse ad esprimere tutto del personaggio a prescindere dalla parola, il cinema allo stato puro.

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