Franco Guerzoni, viaggi randagi
Intervista L'artista presenta la mostra milanese «L’immagine sottratta», al Museo del Novecento fino al 14 febbraio
Intervista L'artista presenta la mostra milanese «L’immagine sottratta», al Museo del Novecento fino al 14 febbraio
La lista di parole-chiave è lunga: randagio, opaco, gessoso, frammento, rovina, strappo, stratificazione, perdita, fantasia… Partendo da qui si sviluppa la lunga conversazione con Franco Guerzoni (Modena 1948), seduti uno di fronte all’altro nello studio dell’artista, appena fuori dal centro di Modena. Un’officina creativa in cui Guerzoni si è insediato fin dai primi anni ’80. Un tempo questi ambienti spaziosi erano i magazzini della stazioncina della linea ferroviaria Modena-Sassuolo, ancora attiva. Fuori dal portone di legno, nel cortile, ci sono diversi alberi. «Guarda abbiamo un fungo!», dice l’artista al suo assistente Giorgio Castriota Scanderbeg, indicando il tronco.
Una sorpresa, un incontro imprevisto all’interno dello scenario del quotidiano. Inciampi e casualità-non casuali, del resto, sono elementi preziosi nel processo artistico di Franco Guerzoni, a cui il Museo del Novecento di Milano dedica la mostra personale L’immagine sottratta, a cura di Martina Corgnati (fino al 14 febbraio 2021), accompagnata dal catalogo edito da Skira. Una poetica basata sull’approccio non convenzionale alla materia che viene ripercorsa attraverso i primi lavori degli anni ’70, tra cui Antropologie del 1976-1978 e quelli più recenti – da Archeologie senza restauro a Intravedere, fino a Epistola (2020) – inclusi i numerosi libri-opere. In mezzo ci sono tre decenni di attività raccontati nel video che Eva Marisaldi ed Enrico Serotti realizzeranno nello studio dell’artista.
Randagio è un termine ricorrente nella tua biografia, riferito ai viaggi che facevi con Luigi Ghirri, così come al cercare…
Nessun luogo da nessuna parte. Viaggi randagi con Luigi Ghirri è proprio il titolo del libro che ho pubblicato nel 2014. Un libro sorridente. Randagio è l’espressione che restituisce bene il mio muovermi con Luigi. Un viaggiare nella pianura alla ricerca di case abbandonate, relitti che non fossero antichi. Ero fortemente interessato ad un’archeologia del quotidiano che veniva letta più con l’antropologia. Case abbandonate con i segni del nero dei camini, chiodi al muro… Una volta, in uno di questi viaggi randagi, nel mantovano – doveva essere il 1974 – incontrammo una villa storica che ci era stata segnalata da un’amica.
All’esterno non sembrava una dimora importante, però già da uno spiraglio della porta apparvero delle figure gigantesche, affreschi cinquecenteschi molto distrutti che nella mia memoria rivedo come fantasmi. Salendo le scale – come in un viaggio nel tempo – si incontravano pitture seicentesche, grottesche, fino alle scene settecentesche di caccia e, ancora più su, le pitture fatte nel ‘900 con i rulli. Questa casa diventò per molto tempo l’emblema del mio lavoro. Scattammo molte foto. Luigi voleva le «foto-foto», a me invece non interessava che fossero belle, dovevano essere immagini da usare come supporto e su cui, con una chimica molto ingenua, facevo crescere le muffe di salnitro che davano alla foto una profondità, un’esperienza, una nuova scrittura.
All’epoca le case abbandonate e distrutte, che nei miei lavori chiamavo affreschi, rivelavano il loro interno, il loro ventre. Ventri che erano delle porzioni di stucchi, pitture rosa, azzurre, anche euforiche. Qualche volta intervenivo su quelle campiture con i gessi. Luigi, che era una persona di una gentilezza assoluta – era anche molto colto – mi accompagnava nelle cose più terribili che potessi inventarmi dalla sera alla mattina, ma non trovava giusto aggiungere alla fotografia un’esperienza ulteriore. Diceva che la fotografia basta a se stessa. Io replicavo che la rovina basta a se stessa. C’era sempre questo dialogo tra noi. Cercavamo i fienili, sopravvissuti alla rovina delle grandi corti agricole, che per me avevano la caratteristica di somigliare tremendamente agli edifici greco-antichi.
La stessa forza, la grande dignità, ce l’avevano anche le aie campestri ormai private delle danze dei contadini, della mietitura, della battitura del grano. Era un tempo molto felice in cui stavamo con un piede nel passato, con la grande passione per le osterie con i tavoli con le gambe a cipolla in cui, tra artisti si dibatteva e si parlava di progetti – oltre che di Luigi ero molto amico, tra gli altri, di Franco Vaccari, Claudio Parmiggiani, Giuliano Della Casa, Carlo Cremaschi – e un piede spinto in avanti, con i fuochi e le emergenze delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie che, in qualche modo, ci facevano pensare che la pittura non dovesse neanche più esistere.
Tra gli artisti del passato hai dichiarato un «amore smodato» per Piranesi. È per via di un’archeologia in cui la memoria è frutto, in parte, dell’immaginazione?
Piranesi è l’artista che sento più vicino perché accetta la rovina per se stessa, non ricostruisce. Rappresenta l’abbandono e poi le fantasie. Sostanzialmente la mia grande passione per il frammento – qui sei nell’inferno dei frammenti! (sorride) – l’ho sempre accettata proprio attraverso l’esperienza di soggetto delle fantasie che rimanda Piranesi.
Il tuo frammento, però, è trovato o ricreato?
Tutto quello che vedi è fatto ad arte, nel senso che spesso è costruito. Ci sono molti frammenti di tazze, uno degli oggetti che mi commuove di più. Qualche sera fa a Umberto Galimberti, il mio amico filosofo, dicevo proprio che la tazza è il passaggio successivo al prendere l’acqua con la mano. È la rappresentazione del gesto. Ma la mia non è mai una tazza antica e neanche il graal. È qualcosa di vicino alla semplicità del suo essere una piccola invenzione. Costruisco queste cose, poi le guardo tanto e a volte le nascondo, perché non mi rivelano quello che cercavo, poi le riprendo. Uso tante tecniche che sono primordiali, come rompere, spaccare, ricongiungere.
Mi interessa anche lo strappo perché mi offre delle possibilità di frammentare che non potrei fare con la gestione pittorica tradizionale. Inoltre, mi offre delle sorprese alle quali mi affido, piccoli incidenti. Cerco una cosa e me ne viene offerta un’altra, abbandono quello che cercavo oppure porto ciò che cercavo dentro un’altra cosa. È un processo lento.
Il tuo strappo è preceduto dal disegno?
Sì, però è un disegno povero che serve per procedere nel lavoro che metto in moto. Sono «disegnacci», quasi di progetto. A volte ho un taccuino, penso, scrivo degli appunti, magari anche sulle fotocopie o sulle fotografie. Sono disegni vicini più al diario.
Un’altra parola chiave del tuo lavoro è opaco…
Detesto tutto quello che luccica. Mi piace moltissimo la pittura d’affresco perché s’incardina nel muro come una muffa, un lichene. La pittura opaca è quella del muro ed è ciò che cerco sempre nel dipinto, ovvero una dimensione scarica, non d’imbroglio. Proprio perché non mi piace la pittura che abbaia, che conquista a tutti i costi. Prediligo le superfici piane, il bassorilievo che consente tanti punti d’osservazione. A differenza della pittura informale, che m’attribuiscono sempre – sbagliando – come matrice, perché si tratta di paesaggi dell’anima, sono affascinato e anche invidioso degli artisti che approcciano una tela con un pennello e quando l’abbandonano è finita, un po’ come se fosse una scrittura zen. C’è questa leggerezza che purtroppo non riesco ad avere.
Tra i lavori non si parla molto delle tue performance che, negli anni ’70, facevi solo per te…
È stato un cruccio per me, perché avvertivo la forza della performance. Vedevo Franco Vaccari che faceva un’arte ambientale e anche Claudio Parmiggiani cercare di diffondere l’opera, aprirla. Ci provai anch’io, facendo due «cose» fotografate da Luigi Ghirri. Una è la scultura da tasca Opera da tavolo, esposta anche al Museo del Novecento, che tiravo fuori quando si cenava in compagnia. Aprivo la scatola cinese serpentata in cui c’era un carillon e delle esche, i grilli che usavo per la pesca alla mosca. Dell’altra – Verosimile – ho un imbarazzo mostruoso. A Campogalliano c’è la bellissima villa Dallari che era stata tagliata in due da una nuova strada: una parte era delineata da una C di pioppi che sembrava un teatro meraviglioso. Io e Luigi dibattemmo per un pomeriggio sull’animale che si sarebbe potuto muovere in quello spazio. Un gatto gigante era difficile, considerando che sono anche altino (sorride), e nemmeno il lupo o le galline e altri animali da cortile, perché la performance sarebbe diventata troppo fiabesca.
Mi venne in mente l’orso. Affittai un costume da orso e lo indossai, dopo che era stato messo almeno da altre cinquecento persone, perciò aveva un terribile odore di sudore. Vestito da orso camminavo in quel teatro naturale. Non potevo far altro. Luigi ridendo scattò una sequenza di fotografie che ho sempre imbarazzo di mostrare. Da un lato quell’episodio mi fa sorridere, ma dall’altro mi rivela le difficoltà della parola performance.
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