Franco Fortini, se il mondo resta la nostra unica spiegazione
ANNIVERSARI A 25 anni dalla morte del poeta, critico, saggista e «comunista speciale»
ANNIVERSARI A 25 anni dalla morte del poeta, critico, saggista e «comunista speciale»
Venticinque anni fa moriva a Milano Franco Fortini, poeta, critico, saggista, traduttore, insegnante, intellettuale e militante marxista, collaboratore assiduo di questo giornale e tante altre cose tenute insieme da una irriducibile forza di amore e lotta, di gioia e conoscenza, condivisa per mezzo secolo con la sua meravigliosa compagna di una vita, Ruth Leiser.
È passato un quarto di secolo, una generazione. Moriva – era il 28 novembre 1994 – quando sembrava che il capitalismo, attraverso guerre militari, economiche e culturali, fosse invincibile. Poi arrivò la grande crisi del 2007-2008 e il «sistema» mostrò ancora una volta la sua intrinseca irrazionalità così lucidamente descritta da Marx.
FORTINI in quei primi anni Novanta del secolo scorso sentì come una ferita bruciante il venir meno, seppur temporaneo, della prospettiva socialista. Sentì che la rinuncia ai fondamenti della propria storia avrebbe causato ripiegamento e solitudine. Avrebbe consegnato un’intera generazione al cinismo, all’opportunismo, al qualunquismo e l’avrebbe privata di una prospettiva di mutamento di sé e del mondo. Per questo fino all’ultimo giorno non si pentì di nulla e mai si vergognò di essere ed essere stato marxista e comunista, seppure «comunista speciale», come scrisse ironicamente in una sua poesia del 1958.
Una dimensione centrale nell’opera di Fortini è la compresenza di popoli e culture, di «arretrati» e «sviluppati», di primo e terzo mondo. Anche all’interno di uno stesso paese o continente. La simultaneità degli eventi e dei processi storici che si intrecciano e si sovrappongono determinando le nostre vite individuali. Il mondo, dirà citando Schlegel, è e resta la nostra unica spiegazione.
Credo che quasi nessuno, tra gli scrittori del secondo Novecento, abbia avuto una tale profondità di sguardo. Fortini ha praticato questa sorta di «internazionalismo politico-culturale-poetico» con la traduzione di Goethe (l’imponente Faust su cui da poco sono uscite da Quodlibet alcune lettere con l’amico Cesare Cases), di Eluard, di Brecht e tanti altri; con le testimonianze di viaggio: citiamo solo Asia Maggiore. Viaggio nella Cina del 1956, tra i più importanti reportage italiani sulla Cina socialista; con la riflessione sui massimi conflitti internazionali: la netta presa di posizione a favore dei palestinesi, in particolare dopo la Guerra dei Sei Giorni, intrecciata alle riflessioni sulle sue origini ebraiche ne I cani del Sinai del 1967; con i testi per i film sulle origini del fascismo e su Stalin ricchissimi di riferimenti alla storia mondiale; con le sue densissime pagine di critico-saggista capace di trovare in una variante della Pentecoste di Manzoni gli echi delle rivolte agrarie anticoloniali di Haiti; e, naturalmente, con le sue poesie, densamente popolate di «paesi allegorici», di culture altre, di voci da lontano.
POESIE dove Fortini alterna il discorso «diretto» a quello «indiretto», il referto quasi cronachistico alla distanza manieristica che vuole raffreddare la bruciante presenza della storia. Una poesia come dispositivo formale portatore di elementi di contraddizione che ne fanno un oggetto diverso dalla prosa (filosofia, storia, scienza), irriducibile a esso perché allusivo, ambiguo, straniante, ma pur pieno di filosofia, storia, scienza.
Di queste poesie ne vogliamo ricordare una, un sonetto tratto dalla sezione delle Sette canzonette del Golfo presenti nell’ultima raccolta poetica fortiniana, Composita solvantur del 1994. Il sonetto è la testimonianza estrema di una coscienza critica che coglie il cambiamento di fase storica seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e al rinnovato militarismo imperiale degli Stati Uniti e dei suoi vecchi e nuovi alleati europei, tra i quali spiccano gli ex paesi socialisti dell’Europa dell’Est, oggi divenuti colonie militari degli Usa e della Nato.
LA GUERRA a cui il poeta fa riferimento è la Prima Guerra del Golfo del 16 gennaio 1991, promossa da una coalizione di paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti d’America contro l’ex alleato Saddam Hussein, presidente dell’Iraq. Scrive Fortini in una nota: «Le Canzonette del Golfo sono del 1991. In quell’anno, oggi quasi fatta dimenticare, una operazione di ‘polizia’ tra il Golfo Persico e Bagdad ammazzò centinaia di migliaia di persone, aprendo nuova era nelle relazioni internazionali».
Come si vede, la consapevolezza di essere in presenza di un cambio di fase nella storia del mondo è centrale. Di fronte a questo quadro così tragico, che vede momentaneamente arretrare, perlomeno in Europa, le idee e le prassi di liberazione umana, Fortini ricorre volutamente al registro ironico, in questo caso con il ricorso alla forma del sonetto in cui risuonano echi della Gerusalemme liberata di Tasso, il metallico clangore delle sanguinarie armate dei crociati, antenati altrettanto crudeli dei moderni marines. Un sonetto perfettamente bipartito, dove domina la polarità tra i bombardamenti contro il popolo iracheno nelle quartine e l’idillio teocriteo del nostro beato e fortunato mondo nelle terzine.
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Il lavoro culturale in un documentario
Il regista Lorenzo Pallini con il suo documentario «Memorie per dopo domani» intende recuperare la figura di Franco Fortini, «modello di pensiero critico», non solo da un punto di vista accademico ma nel quotidiano come «nutrimento necessario». Il lavoro di Pallini è una produzione indipendente ed è per fare fronte all’alto costo legato ai diritti di distribuzione dei materiali storici e di archivio che il regista ha appena lanciato il crowdfunding con «Produzioni dal basso» al link www.produzionidalbasso.com/project/franco-fortini-il-documentario/
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