In uno dei suoi saggi più classici – «Intellettuali, ruolo e funzione» – Franco Fortini ne coglieva la dialettica calcolandola fra la pubblica visibilità degli intellettuali all’interno di un apparato statale o industriale e la più o meno fondata necessità sociale del lavoro effettivamente svolto. Non erano i rilievi di una astratta teoria ma pensieri desunti da una lunga pratica intellettuale di cui erano parti integranti il giornalismo (dalla collaborazione al «Politecnico» di Vittorini in avanti) e il lavoro editoriale: tanto le traduzioni dal francese e dal tedesco condotte con sua moglie Ruth Leiser quanto le attività di consulenza di cui oggi rendono testimonianza i Pareri editoriali per Einaudi (Quodlibet, «Archivio Franco Fortini», pp. 245, € 20,00) proposti nell’esatta curatela di Riccardo Deiana e Federico Masci.

Va premesso che la collaborazione di Fortini con Einaudi si estende in un primo tempo dal ’47 al ’63, quando il poeta è ancora un collaboratore ufficioso (dunque senza contratto pure se dal ’55 partecipa alle celebri riunioni del mercoledì in casa editrice e fra il ’61 e il ’63 ne dirige la PBE), poi dal 1978 all’83 quando assume il ruolo di consulente ufficiale specie, nell’ultimo biennio, per la serie dei «Nuovi poeti italiani» che seleziona avvalendosi della organica collaborazione di Pier Luigi Mengaldo, Alfonso Berardinelli e Walter Siti.

Dalla scelta sono escluse le testimonianze orali, le schede puramente burocratiche o troppo ellittiche e umorali e sono invece accolti quei contributi (un centinaio di schede vere e proprie oltre a una ventina di pareri estratti dalla corrispondenza) che sono importanti, notano i curatori, «per una migliore definizione della sua figura, in grado così di essere illuminata dove arrivano a porsi esigenze non direttamente riconducibili alla sua attività poetica e critica, anche se capaci di presupporla».
Fortini viene interpellato dalla redazione einaudiana a tutto campo circa le novità, anche e soprattutto straniere, di poesia, di prosa e di saggistica.

Scrupoloso nello svolgere il proprio lavoro, si attiene ai punti fermi della critica tout court (del distinguere per valutare, come da etimologia) e guarda con assoluto disincanto alla macchina editoriale e alle dinamiche di mercato: intransigente sulla qualità letteraria delle opere che gli sono proposte, ne valuta contemporaneamente l’orizzonte d’attesa e il potenziale di diffusione, sdegnando comunque la letteratura pensata per l’élite e scritta per i felici pochi.

Prima nelle schede e poi nelle valutazioni epistolari, il suo tratto è immediatamente riconoscibile: cristallino, affilato e nello stesso tempo ben articolato, ad esempio in un parere del 1961 su Maurice Blanchot (riguardo a L’éspace litteraire) quando prende le distanze da un linguaggio che è spesso «acrobatico vaniloquio, oracoleggiante e fumoso» ma ne sostiene tuttavia la obiettiva esemplarità ovvero la originalità all’interno della saggistica contemporanea; un simile paradosso propone, nel ’79, la scheda su La vie, mode d’emploi di Georges Perec di cui rigetta la costruzione totalmente modulare che oggi noi diremmo postmoderna (ma ai suoi occhi semplicemente kitsch: «È straordinario nel senso di un ordinario sistematico ed è vuoto nel senso di un pieno assoluto e irrespirabile. È il sogno supremo di essere più intelligente del compagno di banco»), eppure si pronuncia con un sì a tutte lettere per il prevedibile valore commerciale di ciò che anche definisce «un contributo alla creazione di sottoletteratura».

In realtà il florilegio è molto assortito a partire da una quantità di nomi ignoti, perché mai pervenuti al beneficio di una pubblicazione, oppure malnoti perché editi da Einaudi o altrove, soprattutto i poeti, solo al tempo dell’effimero boom delle letture pubbliche, tra la fine degli anni Settanta e il principio degli anni Ottanta.

Non mancano le sorprese ed è il caso di Johannes Robert Becher, prominente burocrate della Ddr nonché autore dell’inno nazionale, Auferstanden aus Ruinen: propostogli nel ’51 da Natalia Ginzburg, Fortini ne rifiuta la prosa romanzesca, ma ne accoglie con favore le poesie («liriche molto belle, senz’altro notevolissime»). Molto più recente, il caso di Gianni Celati, del quale Fortini legge nel 1978 il romanzo più bello, Lunario del paradiso, paventando un eccesso di svagatezza e di verismo vernacolare («piccole crudeltà e vagabondaggi – è canonico e da basso-film c’è abbastanza Zavattini in questo Celati») e però, riconoscendone la qualità letteraria, tanto che si dice favorevole «un po’ a malincuore», alla sua pubblicazione.

Un simile sguardo ancipite lo riserva anche ad alcuni poeti che gli sono cari: un ancora giovanissimo Milo De Angelis (siamo nel 1980 e si parla del saggio Poesia e destino) «neo-ermetico» che sente lontano per cultura e riferimenti intellettuali ma di cui molto apprezza la «qualità di frenetica oltranza e di durezza di scrittura» accusando la Einaudi di averlo abbandonato alla concorrenza; e così, di segno opposto, il «neo-maledetto» Attilio Lolini, che fu suo amico negli anni dell’insegnamento a Siena, del quale valuta fra il 1981 e l’82 la splendida versione dell’Ecclesiaste (uscirà da Barbablù due anni dopo con la sua stessa prefazione) e il romanzo di formazione Morte sospesa (Il lavoro editoriale 1986) di cui pure loda la scrittura «notevole, pulita e dura, efficace».

Non mancano ovviamente le idiosincrasie e le cantonate come nel caso, per esempio, di Giorgio Luzzi, un poeta di ben riconoscibile fisionomia del quale ammette «la grande finezza di sguardo» ma cui imputa personalmente quanto potrebbe essere imputato con ben poche eccezioni a tutta quanta la letteratura al tempo del neocapitalismo, vale a dire di operare nel «Luna-Park della cultura, odiosamata».

Il taglio dei pareri editoriali richiama nel complesso le sue scritture cosiddette di servizio, ma non meno d’autore, che sono contenute in Ventiquattro voci per un dizionario di lettere (Il Saggiatore 1968) o nelle schede di Trentasei Moderni. Breve secondo Novecento (Manni 1996) e, più in generale, nelle annotazioni rapide e incisive dell’Ospite ingrato la cui prima tranche risale al 1966. Lo stile di Fortini in effetti differisce da quello di un suo grande compagno di via, il germanista Cesare Cases, le cui consulenze einaudiane (ora raccolte nel volume Scegliendo e scartando. Pareri di letteratura, a cura di Michele Sisto, Aragno 2013) viceversa denotano un’attitudine alla bonomia parodistica e alla distanza ironica. Fortini no, e non tanto per la concinnitas con cui sa riunire sulla pagina eleganza e forza o nemmeno perché di un qualsiasi testo va al dunque molto più direttamente e talora con il bisturi, ma per la netta distinzione che proprio un suo maestro, Walter Benjamin, volle istituire fra il commentario che indaga il contenuto reale di un’opera e la critica che invece ne esige il contenuto di verità.