Se è vero che il valore di un saggio sta nella capacità di sopravvivere allo spirito del suo tempo, e nel fatto che la sua riflessione teorica sia in grado di prescindere dal contesto che descrive, la recente riedizione del libro di Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra  (prefazione di Massimo Recalcati, Feltrinelli, pp. 288, € 24,00) offre l’occasione per misurare, a più di mezzo secolo dalla sua prima pubblicazione, la tenuta storica e socio-culturale di questo testo di cui Andre Green parlò come dell’ «opera più importante sull’argomento dopo Il disagio della civiltà di Freud».

Nel rileggerlo, si mostra sin da subito evidente la sua duplice vocazione: per un verso, è un saggio di metapsicologia psicoanalitica, per l’altro, è un vero e proprio scritto politico. Mentre Fornari interroga la teoria psicoanalitica (in particolar modo, la sua declinazione kleiniana) per spiegare i meccanismi inconsci in azione nel fenomeno guerra, al tempo stesso elabora una serie di considerazioni e di proposte dotate di un indubbio profilo socio-politico, avviando due percorsi di studio che indagano lo stesso fenomeno, ma da prospettive e con finalità diverse.

Secondo la tesi che attraversa l’intero scritto, la guerra sarebbe una istituzione sociale che mira a ‘curare’ angosce paranoidi e depressive presenti in ogni essere umano. Essendo il vero nemico (che Fornari definisce il ‘Terrificante’) sempre, originariamente, interno, il fenomeno guerra – istituendo un nemico esterno – ne consente la collocazione fuori di sé. Sul piano metapsicologico, questa tesi, di chiara derivazione freudiana, comporta la responsabilizzazione di ogni uomo di fronte alla guerra, che non sarebbe, dunque, riconducibile a ragioni di ordine economico, razziale o geopolitico ma andrebbe fatta risalire a  cause di ordine individuale, dipendenti dalla mancata elaborazione dei propri vissuti paranoici o depressivi. Trascorsi psichici che si riattiverebbero in occasione di eventi sociali particolari e verrebbero dirottati da «determinati operatori politici» su un comune ‘oggetto’ da combattere, condizione necessaria alla costruzione e alla condivisione collettiva dello spirito bellico.

Se il singolo individuo – scrive Fornari – delega l’istituzione governativa a risolvere la propria angoscia, lo Stato si trova a gestire e a capitalizzare un’aggressività che è la somma delle istanze belligeranti di ogni singolo cittadino. Com’è possibile, si domanda Fornari,  avviando la sua  speculazione di natura più propriamente politica, concepire altre forme di elaborazione sociale del lutto che evitino l’identificazione di un nemico esterno, cioè, la proiezione del ‘Terrificante interno’ su un ‘Terrificante esterno’?

Intorno a questo interrogativo, si sviluppano una serie di ragionamenti che, sebbene maturati nell’era della contrapposizione tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, si rivelano strumenti utili per comprendere la nostra epoca. E se, per un verso, non si può negare il carattere francamente utopistico dell’idea di creare un’istituzione alternativa alla guerra – l’Istituzione Omega, nella quale ogni individuo dovrebbe riappropriarsi della sovranità, precedentemente ceduta allo Stato – per l’altro, ne resta viva la portata rivoluzionaria. Destinata a reprimere la guerra, in quanto crimine provocato dall’inconscio desiderio delittuoso dei cittadini, l’Istituzione Omega sarà fondata sulla rinuncia del cittadino a delegare la risoluzione delle proprie angosce allo Stato: un atto ‘sovversivo’ (definito desovranizzazione) con il quale la legge si sostituirà alla guerra, il conflitto esterno verrà rimpiazzato dal lavoro sull’ambivalenza affettiva del singolo individuo, la distruzione dell’altro da «una rimeditazione dei problemi della colpa». In quanto atto fondativo, dovrà coinvolgere ogni individuo, consapevole del fatto che il ricorso alla legge è un modo più vantaggioso di difendersi dalle angosce persecutorie.

Il cittadino di questa nuova istituzione sarà chiamato a svolgere su di sé un lavoro di elaborazione e di riparazione, sottraendosi, così, alla logica della reazione speculare: l’olocrazia soppianterà la sottomissione collettiva alla suggestiva (e quanto mai popolare, oggi) teoria realistica della guerra: «se uno ti dà un calcio nello stinco, tu cosa fai?», consequenzialità rozza,  che a suo tempo Fornari smontò in maniera impeccabile, e che più recentemente, negli sconfortanti dibattiti sulla guerra in Ucraina, viene sostenuta per dimostrare la presunta inevitabilità della risposta militare all’aggressione russa. Fornari  mette anche in guardia da un pacifismo ingenuo, che prescindendo dalla responsabilità del singolo individuo e dal faticoso lavoro del lutto si affidi alle manifestazioni popolari, che inevitabilmente rimuovono il sentimento depressivo o scotomizzano il nucleo inconscio di aggressività. Alla legge è anche affidato, secondo Fornari, il compito di elaborare le angosce paranoiche che, al contrario, proliferano nelle dottrine politiche che hanno dominato il corso degli eventi degli ultimi settant’anni. In particolare quelle derivate dalla dottrina MacNamara, che implica la supposizione per cui la strategia militare di una potenza (che peraltro si autodefinisce defensor pacis) e la sua programmazione di interventi bellici di crescente intensità, abbia come effetto la dissuasione del nemico, che, incalzato dall’escalation degli attacchi dell’avversario, troverebbe più conveniente desistere dal proprio intento aggressivo. Gli unici effetti di questa strategia sarebbero invece – secondo Fornari – una pericolosa spaccatura manichea delle nazioni, e lo sviluppo di fanatismi sempre più sado-masochisti. A distanza di cinquant’anni, ancor più delle sue tesi metapsicologiche, sono queste importanti considerazioni di carattere politico ad attribuire al saggio di Fornari la capacità di portare alla luce una serie di questioni che il dibattito in corso sulla guerra russo-ucraina tende a offuscare.