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Franco Cordelli, il Moloch sorridente che ci fagocitò tutti

Roma, silhouette di Silvio Berlusconi a un comizio del centro-destra durante la campagna elettorale del 2001Roma, silhouette di Silvio Berlusconi a un comizio del centro-destra durante la campagna elettorale del 2001 – Franco Origlia/Getty Images

Scrittori italiani La rinuncia alla «narrazione» come contravveleno alla facondia narrativa di Berlusconi. Rileggiamo, a vent’anni dalla sua uscita, «Il Duca di Mantova» di Franco Cordelli, da La nave di Teseo

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 7 luglio 2024

Non so se è un caso che Il Duca di Mantova di Franco Cordelli veda di nuovo la luce, a vent’anni dalla prima pubblicazione (La nave di Teseo «i Delfini», pp. 220, € 22,00), un paio di settimane dopo l’anniversario della morte del Duca – così dribblando l’ingorgo di instant-book usciti per l’occasione. L’autore sostiene non solo di non averci rimesso le mani, ma di tributargli oggi memoria opaca, e sostanziale non cale. Ben altro mi preoccupa oggi, dice Cordelli.

Silvio Berlusconi, ovvero il Duca, è morto da un anno ma il berlusconismo come epoca storica – si sostiene – è finito da un pezzo. Ce lo diciamo un po’ per tranquillizzarci – esorcizziamo una paura evocandone una peggiore – e un po’ per autoassolverci. Sappiamo bene, infatti, che la devastazione di oggi non sarebbe concepibile senza il Ventennio Ducale; semmai – guardando al populismo mediatico e allo spettacolare diffuso del social-narcisismo di massa – il problema storiografico è che Berlusconi si può considerare altrettanto un effetto che una causa. Quello di oggi, in ogni caso, è un berlusconismo ideale eterno: che sul simbolo del suo partito figurasse ancora il suo nome, sulle schede elettorali qualche settimana fa, la dice lunga sullo spettro che continua a infestarci.

Almeno il rito dell’autoassoluzione, però, Il Duca di Mantova ce lo risparmia. Il clima che ci è toccato respirare negli anni dell’assistenza ai vecchietti a Cesano Boscone, delle foto con gli agnellini allattati col biberon, infine delle Esequie di Stato solenni in Piazza Duomo non solo assolve «il Berlusconi che è in me», per dirla col vecchio Gaber, ma anche l’anti-Berlusconi che abbiamo preteso di rappresentare e che, a conti fatti, non ci siamo neppure avvicinati a essere. È questo che infastidisce nel più teratologico, e annosamente covato, degli instant-book: il B. di Filippo Ceccarelli.

Su la Repubblica Marco Belpoliti ha scritto che «la spietatezza del racconto si sposa a una sorta di misericordia verso il peccatore». Ma se è forse inevitabile che un romanziere sospenda il giudizio su un proprio personaggio, non così dovrebbe in un libro che – sebbene letterariamente ragguardevole – un romanzo non è (per un esempio di spietatezza si veda il libro di Ferruccio Pinotti, tanto meno «scritto» ma dal titolo irresistibile: Silvio ha fatto anche cose buone). La sconfitta di coloro che a Berlusconi si sono opposti, come il giornale sul quale Ceccarelli ha scritto per decenni (oppure quello dove scrivo io, ora come allora), non consiste solo della «berlusconizzazione» della sinistra, ma della sostanziale ineffettualità dei loro ragionamenti (ivi compreso questo mio, certo). Tanti che hanno tentato di opporglisi, in un modo o nell’altro, sono – siamo – stati fagocitati da quel Moloch sorridente.

Ora, di romanzi su Berlusconi ne sono stati scritti tanti; e a riprova della loro ineffettualità letteraria, oltre che politica, si può osservare che giudizi su di lui non vi siano mai mancati. È sintomatico che Il Duca di Mantova non ne contenga, invece, e che ciò malgrado abbia passato guai concreti (prima il suo editore, Einaudi, lo rifiuta; poi Cesare Previti lo denuncia: la formula d’assoluzione si legge sull’«Almanacco Guanda» 2008).

Arduo del resto è considerare un libro come questo entro il genere «romanzo»: come vi si legge, «Il Duca di Mantova è tutto, tranne che un romanzo: è uno zibaldone, è un diario tematico, un taccuino gotico – il riassunto delle mie (e nostre) pulsioni di rigetto». Quella del Duca, come dice già questa sua persona teatrale, non è la figura storica né il simbolo politico Berlusconi, ma la forma che dà – ha dato, a tutti noi, per più d’un ventennio – ai nostri fantasmi psichici. Ed è un teatro d’ombre questo libro (come nella copertina della princeps Rizzoli, a suo tempo fortemente voluta dall’autore) nel quale l’ombra più sfuggente – come in tutti i libri di Cordelli – è quella di chi dice «io»: qui ancora più inconfondibile che altrove, però, con le impuntature e i manierismi del suo stile che s’ispessiscono idiomatici, a tratti rapinosi.

Se il modello dichiarato da Cordelli era Eros e Priapo, la sua edizione critica uscita dodici anni dopo ha evidenziato quali abissi di colpa – proto-fascista, nonché dal Duce-Duca omo-attratta – avessero nutrito quel libello di Gadda; non diversa, in ciò, l’ambiguità strutturale del Duca di Mantova. (E non diversa, aggiungo, la miscela di tratti respingenti: alla brutalità misogina di Gadda corrispondendo, in Cordelli, la gratuità degli entretiens con la bande à part degli amici, indecifrabili da un lettore esterno alla cerchia).

È evidente infatti la fascinazione per la «maestà» del Duca, in chi scrive le pagine davvero memorabili sulla sua epifania a San Siro, l’unica volta che lo abbia visto dal vivo. Dove il dettaglio che spicca è quello delle mani che, come un re-taumaturgo à la Marc Bloch (osservò allora Massimo Raffaeli), quasi si spinge ad apporre sui pargoli che accorrevano a lui – cioè su tutti noi («ardeva del desiderio di toccarli, ardevano che li ungesse con le sue mani, come un prete»). È lo stesso dettaglio che spicca nel ritratto di Previti «con la possente e rapace, è un’ipotesi, mano destra in primo piano, e con la sinistra a toccarsi il mento che scende giù sorridente». La foto più impressionante, nell’iconografia del B. di Ceccarelli, è non a caso la penultima: che ritrae una mano del Duca, appunto, surrealisticamente decontestualizzata e pre-mummificata come in un ex-voto terribilmente vivo.

Se tanto ci turbano, queste mani, è per il chiasmo che incarnano. Quanto le nostre, che pure hanno consistenza (e caducità) materiale, risultano ineffettuali, così quelle immateriali di questi ectoplasmi mediatici hanno, di contro, una caratterizzazione fisica persino brutale: sono possenti e rapaci. Le mani sulla città, quegli spettri, non solo le hanno messe: ce le tengono ben strette ancora oggi, che sono fuori gioco da un pezzo. Scrivevo allora che, se il Ducato cantato da Gadda era quello dato alle fiamme (come nelle Novelle con questo titolo, nel 1953) dalle bombe delle Fortezze Volanti e dai roghi della guerra civile, a noi era toccato un Ducato in cenere. Una pia illusione, questa. Ciò che in certo senso non è mai esistito, infatti, non cessa di sortire effetti materiali all’atto della sua scomparsa.

Il contravveleno dispensato da Cordelli si colloca su un piano diverso. Se fra gli arcana imperii del Duca – da ben prima della sua intronizzazione – vi era la sua straordinaria facondia narrativa («la nostra utopia era quella di … Lautréamont, pensavamo che tutti dovessero diventare poeti. … Ma il Duca di Mantova ha di fatto rovesciato la nostra giovanile utopia poetico-comunista. Sono tutti poeti, o quasi-poeti, o disponibili alla poesia – cioè alla narrazione della propria cosiddetta esperienza, immaginazione compresa: dunque, non vi è più alcun poeta»), l’unico modo per collocarsi al suo simmetrico rovescio non potrà essere che la rinuncia alla narrazione. Le narrazioni che si professano oggi politiche sono tanto più ineffettuali quanto più a tesi: documentario-vittimistiche o risentito-moralistiche, melodrammatiche sempre.

Sin dal titolo Il Duca di Mantova si collocava agli antipodi: anche se saranno soprattutto i libri a venire di Cordelli (Una sostanza sottile su tutti) a mostrare sino a che punto, in questa direzione, ci si possa spingere. Ma le ultime parole d’allora, vent’anni dopo, quella direzione indicano con stoica chiarezza: «Non vedo nessuna dinamica, né parabola. Nessun centro e nessuna periferia».

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