Franco Autiero nel segno di Antonin Artaud
Teatro A dieci anni dalla scomparsa un ricordo del drammaturgo e scenografo
Teatro A dieci anni dalla scomparsa un ricordo del drammaturgo e scenografo
«Il teatro è penitenza! Che ve credite, che è crociera? Si ve credite che è crociera vutate ’e tacchi e dicite: buonasera», battuta al vetriolo tratta da «Matamoro», dramma che ben sintetizza il senso eminente e intellettuale che Franco Autiero – Vico Equense (NA) 1° gennaio 1945/1°marzo 2008 – ha del Teatro. La sua scrittura drammaturgica riecheggia adesso più che mai attuale e profetica per denunciare la decadenza, il declino culturale e gestionale dei teatri. Sono volati in un batter d’ali questi dieci anni in cui ha abbandonato la scena della vita come un coup de théâtre. Partenza interpretata come uno dei lampi figurativi del suo Teatro: senza trama e senza traccia. Trip improvviso verso il limbo, in cui r/esistono Craje e Pscraje, le figure artaudiane di «Ambo» (Nicola Longobardi Editore, 1998) o verso l’assurdo, patafisico condominio in cui vivono Amalia e Amelia, le folli personalità sdoppiate nell’Io e nell’Es di «Polveri Condominiali» (Independently published, 2017). Drammaturgo, scenografo, regista, storico dell’arte, sul quale troppo poco l’attenzione della critica si è soffermata. Precursore di invenzioni linguistiche, cesellatore di lemmi, che non ha goduto come meritava, perché troppo in anticipo sui tempi. Una lingua musicale polisemica anti-teatrale, de-composta, in perenne equilibrio tra dissonanze estreme. Da Vico Equense è iniziata la ricerca teatrale insieme ad Annibale Ruccello (1956/1986), col quale fonda la Cooperativa ‘Il Carro’. S’è contraddistinto come autore di pièce teatrali che gli hanno conferito premi nazionali: nel ’93 con «Ambo» vince il premio Stabia Ciro Madonna e con «Il sale degli esposti» ottiene un’unanime segnalazione alla XLII edizione del Premio Riccione Ater per il Teatro. Con «Polveri condominiali» del 1993 Autiero intraprende il percorso drammaturgico, seguiranno «Miserabilia» (’93), «Amarmarmaramar» (’94) che debutta al Teatro Juvarra di Torino nello stesso anno. Inizia a scrivere dopo la «partenza» – come egli stesso la definisce – di Ruccello e gli necessita per rielaborare la perdita. L’idioma proviene dall’ancestrale lingua materna in cui affiora un linguaggio remoto in cui domina l’Es-traniante visione del doppio. Della sua scrittura teatrale ne parla in un’intervista del 2000: «È stata una cosa difficilissima andare da attori e gente di mestiere per far leggere gli scritti. Però una cosa è la scrittura, altra è la vicenda della realizzazione legata a tutt’altri fattori che sono di natura esclusivamente commerciale: il nome in cartellone del regista o dell’attore. Questo è un aspetto molto amaro. Spesso i testi non vengono nemmeno letti, sembra quasi che gli addetti ai lavori non abbiano la competenza della selezione. Come autore vieni selezionato solo per caso o se hai un grosso sponsor che ti impone». Che lungimiranza! Il suo pessimismo che affiorava durante i nostri discorsi era una spietata analisi dell’inaridimento della cultura rispetto a una realtà teatrale in decadenza con la cognizione che il Teatro non era quello presente nei Festival Discount. La drammaturgia di Autiero – come quella del sodale Ruccello, ovvero l’altro sé della sua psiche, definiti da chi scrive i Dioscuri del teatro contemporaneo – si rifà alla folgorazione che già aveva trafitto Antonin Artaud, sottraendosi alla gabbia morale e scorgendo in essa l’esperienza sostanziale della s/ragione, che impone ciò che è rappresentabile a teatro: il non-dicibile, il delirio, l’assurdo, gli ibridi. Per Artaud, il teatro ha valore metafisico e non ha nulla a che fare con l’osservazione reale della quotidianità. In tale prospettiva, il teatro concorre a una sorta di ‘traumatismo dello spettatore’, nel senso che la messa in scena non deve essere uno svago sedativo, bensì un mezzo per mettere in discussione l’etica dei partecipanti; deve divenire cerimonia iniziatica, che per Artaud «significa […] credere in una concezione della vita rinnovata dal teatro, dove l’uomo divenga impavidamente signore di ciò che ancora non esiste e lo faccia nascere».
Autiero mette in atto un teatro impostato sul concetto di corpo/voce, in cui la parola si autonomizza dalla scena attraverso un processo lacaniano privilegiando il rapporto con una lingua ibrida che commistiona suoni dialettali, lingua colta, linguaggio dei mass media, linguaggio degli avi, e che si distanzia dal dialetto della tradizione: una ‘parlata della differenza’, per dirla con Jacques Derrida. La drammaturgia affonda le radici in un universo simbolico dominato dalla follia, dalla morte, dall’irrazionale: è il teatro della malattia e del malessere che riconduce a Jean Genet, Harold Pinter, Samuel Beckett. Comune denominatore dei drammi sono le figure femminili: «Quasi sempre donne, la drammaturgia contemporanea mette in scena le donne, perché i comportamenti e le mentalità femminili sono molto più intriganti di quelli maschili. La donna ha una capacità di sorpresa che l’uomo non ha. La donna è meno retorica, meno patetica. Le mie donne sono sicuramente dei tipi paranoici, con una capacità di maturare l’emarginazione che diventa teatro», asserisce Autiero. Tra le altre opere: «Ipnopolis» (’94) a cui conferiscono il Premio Speciale al Concorso Nazionale “Franco Pacchi” andato in scena nello stesso anno presso l’Istituto Francese di Firenze, «Espiantati» (’95) debutta con la sua regia nell’ambito della XXV edizione del Festival ‘Settembre al Borgo’ di Casertavecchia, «La trapassata delle trapassate» (’96) con cui vince la borsa di studio al Premio Solinas nel 1996, «Matamoro» (’94) con cui assegnano il Premio Candoni nel 1996 debuttando a Napoli nel 2000 per il ‘Maggio dei Monumenti’. «Ambo» debutta con la sua regia nel 2007 nell’ambito della XVIII edizione del Festival ‘Benevento Città Spettacolo’. «L’orologio della Passione» (2007), ultima opera da decifrare, forse, come premonizione. Al teatro asfittico che incespica sui palcoscenici di oggi (con le dovute eccezioni) manca il fascino travolgente, la malia eccitante e struggente della drammaturgia di Autiero. Questo è uno dei motivi, affinché Autiero non cada nel dimenticatoio e le sue opere teatrali vengano pubblicate e rimesse in scena senza mai smarrire il ‘segno’ che lui ha lasciato, né trasgredire il rigore e l’onestà intellettuale. Al momento, con «Nostalghia», per dirla con Andrej
FRANCO AUTIERO NEL SEGNO DI ANTONIN ARTAUD
Domenico Sabino
«Il teatro è penitenza! Che ve credite, che è crociera? Si ve credite che è crociera vutate ’e tacchi e dicite: buonasera», battuta al vetriolo tratta da «Matamoro», dramma che ben sintetizza il senso eminente e intellettuale che Franco Autiero – Vico Equense (NA) 1° gennaio 1945/1°marzo 2008 – ha del Teatro. La sua scrittura drammaturgica riecheggia adesso più che mai attuale e profetica per denunciare la decadenza, il declino culturale e gestionale dei teatri. Sono volati in un batter d’ali questi dieci anni in cui ha abbandonato la scena della vita come un coup de théâtre. Partenza interpretata come uno dei lampi figurativi del suo Teatro: senza trama e senza traccia. Trip improvviso verso il limbo, in cui r/esistono Craje e Pscraje, le figure artaudiane di «Ambo» (Nicola Longobardi Editore, 1998) o verso l’assurdo, patafisico condominio in cui vivono Amalia e Amelia, le folli personalità sdoppiate nell’Io e nell’Es di «Polveri Condominiali» (Independently published, 2017). Drammaturgo, scenografo, regista, storico dell’arte, sul quale troppo poco l’attenzione della critica si è soffermata. Precursore di invenzioni linguistiche, cesellatore di lemmi, che non ha goduto come meritava, perché troppo in anticipo sui tempi. Una lingua musicale polisemica anti-teatrale, de-composta, in perenne equilibrio tra dissonanze estreme. Da Vico Equense è iniziata la ricerca teatrale insieme ad Annibale Ruccello (1956/1986), col quale fonda la Cooperativa ‘Il Carro’. S’è contraddistinto come autore di pièce teatrali che gli hanno conferito premi nazionali: nel ’93 con «Ambo» vince il premio Stabia Ciro Madonna e con «Il sale degli esposti» ottiene un’unanime segnalazione alla XLII edizione del Premio Riccione Ater per il Teatro. Con «Polveri condominiali» del 1993 Autiero intraprende il percorso drammaturgico, seguiranno «Miserabilia» (’93), «Amarmarmaramar» (’94) che debutta al Teatro Juvarra di Torino nello stesso anno. Inizia a scrivere dopo la «partenza» – come egli stesso la definisce – di Ruccello e gli necessita per rielaborare la perdita. L’idioma proviene dall’ancestrale lingua materna in cui affiora un linguaggio remoto in cui domina l’Es-traniante visione del doppio. Della sua scrittura teatrale ne parla in un’intervista del 2000: «È stata una cosa difficilissima andare da attori e gente di mestiere per far leggere gli scritti. Però una cosa è la scrittura, altra è la vicenda della realizzazione legata a tutt’altri fattori che sono di natura esclusivamente commerciale: il nome in cartellone del regista o dell’attore. Questo è un aspetto molto amaro. Spesso i testi non vengono nemmeno letti, sembra quasi che gli addetti ai lavori non abbiano la competenza della selezione. Come autore vieni selezionato solo per caso o se hai un grosso sponsor che ti impone». Che lungimiranza! Il suo pessimismo che affiorava durante i nostri discorsi era una spietata analisi dell’inaridimento della cultura rispetto a una realtà teatrale in decadenza con la cognizione che il Teatro non era quello presente nei Festival Discount. La drammaturgia di Autiero – come quella del sodale Ruccello, ovvero l’altro sé della sua psiche, definiti da chi scrive i Dioscuri del teatro contemporaneo – si rifà alla folgorazione che già aveva trafitto Antonin Artaud, sottraendosi alla gabbia morale e scorgendo in essa l’esperienza sostanziale della s/ragione, che impone ciò che è rappresentabile a teatro: il non-dicibile, il delirio, l’assurdo, gli ibridi. Per Artaud, il teatro ha valore metafisico e non ha nulla a che fare con l’osservazione reale della quotidianità. In tale prospettiva, il teatro concorre a una sorta di ‘traumatismo dello spettatore’, nel senso che la messa in scena non deve essere uno svago sedativo, bensì un mezzo per mettere in discussione l’etica dei partecipanti; deve divenire cerimonia iniziatica, che per Artaud «significa […] credere in una concezione della vita rinnovata dal teatro, dove l’uomo divenga impavidamente signore di ciò che ancora non esiste e lo faccia nascere».
Autiero mette in atto un teatro impostato sul concetto di corpo/voce, in cui la parola si autonomizza dalla scena attraverso un processo lacaniano privilegiando il rapporto con una lingua ibrida che commistiona suoni dialettali, lingua colta, linguaggio dei mass media, linguaggio degli avi, e che si distanzia dal dialetto della tradizione: una ‘parlata della differenza’, per dirla con Jacques Derrida. La drammaturgia affonda le radici in un universo simbolico dominato dalla follia, dalla morte, dall’irrazionale: è il teatro della malattia e del malessere che riconduce a Jean Genet, Harold Pinter, Samuel Beckett. Comune denominatore dei drammi sono le figure femminili: «Quasi sempre donne, la drammaturgia contemporanea mette in scena le donne, perché i comportamenti e le mentalità femminili sono molto più intriganti di quelli maschili. La donna ha una capacità di sorpresa che l’uomo non ha. La donna è meno retorica, meno patetica. Le mie donne sono sicuramente dei tipi paranoici, con una capacità di maturare l’emarginazione che diventa teatro», asserisce Autiero. Tra le altre opere: «Ipnopolis» (’94) a cui conferiscono il Premio Speciale al Concorso Nazionale “Franco Pacchi” andato in scena nello stesso anno presso l’Istituto Francese di Firenze, «Espiantati» (’95) debutta con la sua regia nell’ambito della XXV edizione del Festival ‘Settembre al Borgo’ di Casertavecchia, «La trapassata delle trapassate» (’96) con cui vince la borsa di studio al Premio Solinas nel 1996, «Matamoro» (’94) con cui assegnano il Premio Candoni nel 1996 debuttando a Napoli nel 2000 per il ‘Maggio dei Monumenti’. «Ambo» debutta con la sua regia nel 2007 nell’ambito della XVIII edizione del Festival ‘Benevento Città Spettacolo’. «L’orologio della Passione» (2007), ultima opera da decifrare, forse, come premonizione. Al teatro asfittico che incespica sui palcoscenici di oggi (con le dovute eccezioni) manca il fascino travolgente, la malia eccitante e struggente della drammaturgia di Autiero. Questo è uno dei motivi, affinché Autiero non cada nel dimenticatoio e le sue opere teatrali vengano pubblicate e rimesse in scena senza mai smarrire il ‘segno’ che lui ha lasciato, né trasgredire il rigore e l’onestà intellettuale. Al momento, con «Nostalghia», per dirla con Andrej Tarkovskij, re/cito da amico sincero il climax di «Ambo»; Craje: «Sono i fuochi di Sant’Ermo, che compaiono durante le tempeste sugli alberi e tra le vele dei navigli. Speranza e salvezza de’ marenare!»; Pscraje: «Dicono salvano i naviganti dalle tempeste. Questo dicono, ma io questo non lo so! Non ci è dato sapere! Ma ’ncopp’ ’a nave, che se schiant ’nmiez’ all’onne do’ mare, loro…anime accoppiate dal fato, comm’ all’ambo ’o banculotto, sono sereno cielo stellato dint’ ’o niro da’ tempesta! Domani non ci sarò!».
Tarkovskij, re/cito da amico sincero il climax di «Ambo»; Craje: «Sono i fuochi di Sant’Ermo, che compaiono durante le tempeste sugli alberi e tra le vele dei navigli. Speranza e salvezza de’ marenare!»; Pscraje: «Dicono salvano i naviganti dalle tempeste. Questo dicono, ma io questo non lo so! Non ci è dato sapere! Ma ’ncopp’ ’a nave, che se schiant ’nmiez’ all’onne do’ mare, loro…anime accoppiate dal fato, comm’ all’ambo ’o banculotto, sono sereno cielo stellato dint’ ’o niro da’ tempesta! Domani non ci sarò!».
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