Primo di una collana di biografie a fumetti che l’editore Centauria libri dedicherà a grandi figure dell’arte internazionale- come Gustav Klimt, Edward Hopper e Jackson Pollock- arriva in libreria il nuovo lavoro di Cristina Portolano, Francis Bacon. La violenza di una rosa. L’autrice, firma dell’antologia Post Pink (Feltrinelli, 2019), di Io sono mare, delizioso racconto no gender, (Canicola Bambini, 2018), e dei romanzi Quasi signorina (Topipittori, 2017) e Non so chi sei (Rizzoli, 2016), si dedica al fumetto e all’illustrazione senza mai allontanarsi dal tema dell’identità, soprattutto se minacciata, vulnerabile, in costante evoluzione: identità di genere, identità biografica, identità virtuale nel contesto del sexting, in generale identità mai scissa dal cambiamento, tanto da essere disposta a negarsi, per sottrarsi da incasellamenti sterili, etichette riduttive, castranti. Si colloca probabilmente in questa tendenza anche la scelta di un artista complesso e dibattuto, quale Francis Bacon. Ne abbiamo parlato con lei, a pochi giorni dal lancio del libro e del’inaugurazione della mostra «Bacon Freud. La scuola di Londra», al Chiostro del Bramante.

Cristina, al di là dell’occasione, quando e come hai pensato di scrivere una biografia su Francis Bacon?
Sono fortemente convinta che i libri che un autore decide di fare non arrivino mai per caso. Ho conosciuto meglio Bacon in un viaggio a Dublino nell’estate del 2018. Ho visitato la ricostruzione del suo studio londinese alla Hugh Lane Gallery e nella sala adiacente c’erano sia dei suoi quadri sia quelli del suo amico Lucian Freud. In quelle sale ho pensato che avrei potuto raccontare Francis in un modo tutto mio e, al ritorno in Italia, mi è stato proposto di fare una graphic biography su di lui. Credo sia stata una coincidenza felice. Ho pensato che, nonostante tutti i preconcetti sul suo lavoro, fosse una figura da approfondire e che avrei potuto, attraverso le mie tavole, fargli dire molto più di ciò che non è riuscito a dire in vita.

Questo è il tuo primo lavoro biografico. In cosa differisce dalle altre esperienze?
Differisce dal fatto, banale, che per la prima volta sto raccontando la vita di un’altra persona e non la mia. Differisce anche dalla metodologia di lavoro, di ricerca e di studio. Prima di fare lo storyboard ho letto tutto ciò che potevo e guardato tutto quello che ho trovato su Francis ma non puoi mettere tutto nello spazio di 128 tavole. Devi scegliere, selezionare, e poi far stare tutto insieme in armonia. Il lavoro del fumettista è faticosissimo, spesso le persone non possono immaginare quanto. Capita di dover trovare una sintesi, non solo grafica ma anche letteraria, per restituire il senso di qualcosa e una sensazione (come anche Francis faceva con i suoi quadri) della realtà. Di una realtà che spesso non vissuta ma da cui ricevi delle vibrazioni e delle suggestioni che a tua volta devi trasmettere al lettore. In questo mi è stato molto utile il libro Una vita dorata nei bassifondi di Daniel Farson, che ha vissuto a stretto contatto con Bacon, e che frequentava gli stessi ambienti, gli stessi locali nella Londra degli anni ‘60.

Francis Bacon è un artista molto controverso: la sua arte – e per certi aspetti anche la sua vita – sono espressioni di una violenza che per quanto insita nell’uomo, talvolta non riusciamo a giustificare. Come hai trattato questo delicato elemento nel tuo racconto?
Francis è stato un uomo controverso perché estremamente libero e a volte l’estrema libertà è violenta e fa paura. Ho cercato di trattare questa libertà mostrandola in tutti i suoi aspetti, anche quelli più fastidiosi e irritanti. Quando si racconta una vita bisogna astenersi dal fornire il proprio giudizio. Per quanto alcuni suoi atteggiamenti fossero deprecabili ne ho sempre capito il senso, profondo, che componeva il puzzle di una personalità che non si lasciava definire, incasellare, come il suo lavoro, che non avrebbe mai potuto essere stretto nella morsa di un’etichetta e da facili interpretazioni.

Esiste un narratore esterno, che ricorda il mostro acefalo e urlante degli studi per Crucifixion…
Sì. Ho deciso di utilizzare un narratore esterno perché mi permetteva due diversi livelli di lettura. Il primo in cui racconto la storia in maniera cronologica e il secondo in cui ci sono i suoi pensieri e le sue parole. In fondo il mostro acefalo sono un po’ io e un po’ tutti quelli che cercano, dall’esterno, di interpretare e decifrare ciò che non sarà mai facilmente interpretabile.

Qualche anno fa il professor Hammer della University of Kent, dopo la grande retrospettiva del 2008 alla Tate Britain, ha portato avanti uno studio sulle allusioni estetiche alla propaganda Nazi presenti nel lavoro di Bacon. Che ne pensi?
La critica e lo studio così minuzioso delle sue opere, orientate alla ricerca di una poetica e di un messaggio nascosto, fanno parte del sistema dell’arte contemporanea: credo che Francis ne fosse ben consapevole. Talmente consapevole da dichiarare in una sua intervista che la fascetta rossa con la svastica in un suo quadro era stata posizionata lì soltanto perché in quel momento aveva bisogno di quella sintonia cromatica nell’equilibrio dell’opera. Sappiamo che Francis si nutriva delle immagini più diverse, che spesso finivano nei suoi quadri, talvolta accostando elementi disturbanti e di contrasto. Ho letto molto sulla sua vita e mi viene da pensare, visto che spesso rispondeva a certe interviste sotto gli effetti dell’alcol, che Francis si burlasse spesso di chi cercava in maniera spasmodica chissà quale messaggio nascosto nelle sue opere, mentre a lui interessava solo suscitare una reazione o una sensazione.

Nell’introduzione del libro avvicini il tuo percorso a quello di Bacon, nella battaglia obbligata verso l’espressione del sé, battaglia che ogni creatore deve prima o poi combattere. C’è un aneddoto emblematico di questa affinità che senti verso l’artista britannico?
Esatto, ma le battaglie personali non possono essere ridotte ad aneddoti emblematici. Studiando Francis, leggendo della sua vita, delle sue relazioni e dei suoi rapporti, sempre nel libro di Dan Farson- una vera e propria bussola- ho potuto immedesimarmi in una certa frustrazione derivante da varie questioni che spesso tendono a inquietare gli artisti, sia di ieri che di oggi. Ovvero: chi e cosa certifica il valore del tuo lavoro? Da chi o cosa dipende il successo? Le persone che mi circondano mi amano o sono di più quelle che mi odiano? e perché mi odiano se io voglio solo essere amato? Queste incertezze, questa smania di comunicare, la convinzione che qualsiasi cosa si faccia comunque non verrà recepita come si vuole e l’essere perennemente alla mercé di interpretazioni libere con cui possiamo, o no, essere d’accordo, sono sensazioni dolorose per tutte le tipologie di artisti. A volte tutto questo ci rende talmente fragili che alcuni preferiscono togliersi la vita piuttosto che affrontare le delusioni e le sfide che ci si parano davanti. Spesso è un dolore grandissimo fallire e non tutti cadono in piedi. Per questo gli artisti migliori preferiscono non arrivare mai a fare i conti con i propri limiti. Con l’incertezza continua e la frustrazione di non poter fare nient’altro che quello che sanno, e vogliono, fare.