Il dibattito sul movimento woke e la cancel culture agita da qualche tempo la Francia. Lo scorso ottobre, l’allora ministro dell’Educazione nazionale, il sarkozyano Jean-Michel Blanquer, ha dato vita al think tank «Le laboratoire de la République» per sviluppare, secondo l’infelice metafora medica scelta dal fondatore, un vaccino a base di umanesimo e di universalismo contro il virus woke diffuso nei social media e nelle università. Dopo l’assassinio di Samuel Paty per mano di un islamista, il ministro aveva additato l’islamogauchisme come principale responsabile del clima di odio e di violenza. Si tratterebbe, a suo dire, di un’ideologia venuta da fuori, estranea ai valori della Repubblica, alimentata da universitari corruttori delle anime degli studenti. Blanquer, che si era candidato alle legislative, è stato eliminato al primo turno. Con la scelta del nuovo ministro dell’Istruzione, il socialista Pap Ndiaye, figlio di padre senegalese e di madre francese, Macron sembra aver voluto sconfessare la linea politica di Blanquer. Pap Ndiaye, che è uno storico specialista delle minoranze nere negli Stati Uniti, è stato bollato da Eric Zemmour et Marine Le Pen come un autentico intellettuale indigenista, woke, razzialista, islamogauchiste.
Benché il termine woke sia brandito soprattutto dalla destra come arma per screditare gli avversari politici, sarebbe un errore liquidare la questione come semplice polemica elettorale. In realtà il dibattito su woke, cancel culture e decolonizzazione del sapere divide profondamente il mondo intellettuale e tocca i nervi scoperti della società francese. Negli anni passati ci sono state prese di posizione pubbliche da parte di intellettuali conservatori, come il gruppo di universitari firmatari del Manifesto dei Cento, in cui si denunciava la presenza nell’accademia francese delle «ideologie indigenista, razzialista e decoloniale (importate dai campus statunitensi)… che alimentano l’odio nei confronti dei Bianchi e della Francia; e un militantismo talvolta violento che attacca coloro che osano ancora sfidare la doxa antioccidentale e le prediche multiculturaliste». Per Marie-Anne Paveau, professore di scienze del linguaggio alla Sorbona, il Manifesto dei Cento sarebbe l’espressione di «un ripiegamento dei ricercatori francesi sui saperi europei nati dalla matrice greco-latina». La ministra della ricerca e dell’università del precedente governo aveva commissionato un’inchiesta per determinare l’impatto dell’islamogauchisme sulla ricerca e l’insegnamento universitari. Una parte della comunità accademica è insorta contro questa ingerenza e contro l’attacco del potere politico all’autonomia e la libertà dei ricercatori.
In questo clima da culture war è recentemente intervenuto il latinista Pierre Vesperini con il saggio Que faire du passé? Réflexions sur la cancel culture (Fayard, pp. 256, € 18,00). Il libro raccoglie interventi usciti in rivista a proposito della rimozione della statua di Jefferson dalla sala del consiglio comunale di New York, della pratica dei trigger warnings (avvisi sul contenuto), e della polemica del professore di Princeton, Dan-el Pedilla Peralta, contro l’insegnamento universitario dei Classics, strumenti al servizio del dominio della cultura bianca e della discriminazione delle minoranze. È significativo che i casi all’origine degli interventi di Vesperini provengano tutti dall’ambito anglosassone. Di fatto, come sottolineato dal sociologo Michel Wieviorka nel suo Racisme, antisémitisme et antiracisme. Apologie pour la recherche (La Boîte à Pandore, 2021, pp. 77, € 9,90), l’ideologia woke e la cancel culture hanno toccato solo marginalmente l’accademia francese e il loro impatto è largamente sovrastimato dai suoi critici. Vesperini si limita a menzionare la protesta di alcune associazioni di studenti africani che hanno impedito la rappresentazione delle Supplici di Eschilo alla Sorbona, denunciando la pratica del black face (il coro delle Danaidi era formato da attrici bianche che indossavano maschere nere) e la lettera aperta di un gruppo di studentesse dell’agrégation (il concorso per l’insegnamento) che protestavano contro l’inserimento nel programma di una poesia di André Chénier che descrive una scena di stupro. I tre interventi militanti sono preceduti da una parte introduttiva in cui Vesperini contestualizza il fenomeno della cancel culture nella lunga durata della civiltà occidentale tracciando, in modo superficiale, la genesi degli aspetti che i militanti woke contestano: patriarcato, intolleranza, razzismo e colonialismo.
La posizione di Vesperini non è priva di ambiguità e di oscillazioni. Egli non appartiene al campo dei conservatori. Denuncia l’atteggiamento «sacerdotale» nei confronti della cultura, attacca il dogma dell’universalità del canone occidentale, nonché il carattere gerarchico e antidemocratico della tradizione culturale occidentale. Si presenta dunque come un critico benevolo dei militanti woke: pur comprendendone le posizioni, ne contesta le azioni che possono a suo avviso condurre a un vicolo cieco o, peggio, a una catastrofe. Il tono è condiscendente, a tratti paternalista, ad esempio quando all’inizio del volume afferma: «È normale che dei giovani provenienti dalle popolazioni anticamente asservite, in rivolta per l’impunità con cui la polizia insulta, maltratta e talvolta uccide i loro concittadini ‘di colore’ (…) abbiano voglia di cancellare tutto e di farla finita con la cultura-eredità occidentale». Nel seguito del libro però gli attori della cancel culture di cui Vesperini denuncia gli eccessi non sono i giovani radicali, bensì le istituzioni culturali (musei e teatri), l’accademia e i politici, in altri termini l’establishment. Più che una riproposizione della «querelle des anciens et des modernes» come vorrebbe Vesperini, il dibattito sulla cancel culture si inserisce in Francia in quello più ampio che oppone i partigiani dell’universale e quelli del molteplice. Affermando che soltanto con i Lumi «la vita umana recupera il valore che aveva perduto con la fine della cultura antica», Vesperini si colloca tra quelli che Barbara Cassin definisce «i luogotenenti dell’universale» (la cui posizione è illustrata da Francis Wolff, Plaidoyer pour l’universel. Fonder l’humanisme (Fayard, 2019, pp. 288, € 11,00). Ma come giustamente sostiene la filosofa, l’universale è sempre l’universale di qualcuno. E questo qualcuno considera barbari da sottomettere coloro che non possiedono questo stesso universale, o ne possiedono un altro o non ne possiedono affatto.
Nemmeno la spiegazione psico-storica del fenomeno della cancel culture proposta da Vesperini pare cogliere nel segno. Secondo l’autore gli oppressi, al pari di tutti gli individui che hanno subito un trauma, non chiederebbero altro che la possibilità di dimenticare. Da qui la richiesta da parte dei militanti di cancellare tutti gli elementi della cultura europea che possono evocare e richiamare alla memoria l’oppressione. Diversamente da Vesperini ritengo che le rivendicazioni woke abbiano come obiettivo non tanto l’oblio del trauma, quanto piuttosto il ritorno del rimosso, l’anamnesi di quanto la cultura dominante cerca di occultare. Nel caso della Francia e di molti paesi europei la grande rimozione collettiva resta quella del passato coloniale. Basti ricordare la legge del 23 febbraio 2005 che chiedeva ai professori delle scuole pubbliche di «insegnare gli aspetti positivi della colonizzazione», oppure l’ambiguità di Macron sull’argomento. Durante la campagna elettorale 2017 il futuro presidente da un lato definì la colonizzazione francese nell’Africa del Nord un crimine contro l’umanità, dall’altro ne riconobbe «gli elementi di civiltà». Non sorprende che gli intellettuali di destra non perdano occasione di denunciare lo spirito anti-francese e anti-repubblicano di chi chiede un profondo lavoro di memoria sulla storia coloniale. Il movimento woke ci ricorda che il risveglio deve cominciare da lì.