Secondo una controversa nonché consunta tesi storico-politica di fine millennio, la conclusione del Novecento avrebbe coinciso con la fine della storia tout court, avendo l’homo liberalis raggiunto l’apogeo della razionalità nella gestione politica della società e dell’economia. Le pagine di Solo vera è l’estate (Ponte alle Grazie, pp. 208, € 16,00) di Francesco Pecoraro sembrano avallare l’ipotesi di Fukuyama in un modo singolare: se non nella versione euforica che celebra il trionfo dell’affluent society occidentale, nell’idea di un’umanità che segue la traiettoria inerziale di una spinta storica esaurita, fluttuante in un presente anomico e incapace di ritrovare un senso storico dell’esistenza.
La «bolla di alta pressione» sui paesi del sud Europa che apre il racconto assume infatti una funzione metaforica di sospensione del tempo, costringendo all’indolenza i corpi sudati dei cittadini mediterranei e spingendoli a cercare ristoro sul mare, là dove gli affari del lontano boom economico hanno orientato i desideri verso «un’impellenza di massa a stare sulla riva». Le villette e le palazzine deturpanti la scarna bellezza del litorale laziale, orribile risultato delle antiche consuetudini che si ripetono come stanchi automatismi, sono colte da Pecoraro con un’attenzione urbanistico-architettonica già presente nelle pagine di La vita in tempo di pace e Lo stradone (Ponte alle grazie 2013 e 2019), ciò che permette di leggere nel paesaggio il diario intimo di un’epoca.

Siamo nell’ambito del G8 di Genova, nel 2001, e i tre protagonisti – Enzo, Giacomo e Filippo – sono trentenni disillusi e superficiali come se ne trovano sempre di più nella Roma e nell’Italia di inizio secolo: precari nei desideri e nel lavoro e perciò insicuri, «di estrazione borghesella», sono «la non-radicale negazione» del ceto medio che ha fatto il miracolo economico. Il loro sodalizio risale all’epoca della militanza liceale nella sinistra, quindici anni prima, quando le loro fisionomie si cristallizzano in una confusa postura antagonistica, che nasconde l’intima fascinazione verso un mondo capitalistico in rapida accelerazione. Ragionamenti oziosi, metafore compiaciute; un uso dell’intelligenza che coltiva il culto narcisistico del sé dissimulato da un antagonismo posticcio, «un voler sembrare qualcosa di diverso da tutto quello che c’è, mentre è solo dentro la coda ideologica di fine Novecento, che sfuma piano nel Consenso».

In questa omologazione Pecoraro colloca non solo i tre amici ma anche chi a Genova sceglie di andare, grazie alla comparsa di un personaggio sfuggente e sensuale, Biba, cui spetta il ruolo enigmatico di oggetto perduto: desiderata da tutti, nessuno la possiede veramente. Se ha scelto di partire per Genova, non è stato per convinzione politica, piuttosto per conformismo («le hanno detto che questa volta ci saranno tutti») e soprattutto per vedere. Una volta nel corteo, di fronte a «quella che seguita a considerare una scena ben distinta da sé, come se quei pochi metri la separassero dal palcoscenico dello Spettacolo Genova G8 2001», Biba osserva, e il lettore con lei, l’esplosione della violenza sui manifestanti, ridotti, attraverso metafore animalesche e osceni dettagli organici, a puri corpi biologici.
Il voyeurismo che sembrava assicurarle una distanza dagli avvenimenti si traduce nella traumatica impossibilità di formulare risposte razionali e al tempo stesso emotivamente e politicamente efficaci. Biba condivide con gli amici una ironia che è in realtà strumento di difesa psichica, un ostacolo a cogliere il significato politico di quanto si svolge a Genova, restituendone solo l’immagine della nuda vita brutalizzata. Inorridita più che indignata, Biba raggiunge gli amici ad Anzio con il primo treno, rientrando nel bozzolo di quelle relazioni stagnanti dalle quali aveva immaginato di fuggire. Nel suo vitalismo viene a galla tutta la regressione verso la vita biologica che è propria delle generazioni maturate a cavallo dei due secoli, quando sia la storia sia la politica sembrano arretrare di fronte alla necessità di lottare per la propria sopravvivenza nell’ambito sociale: «i secoli non esistono e nemmeno gli anni – i giorni invece sì».