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Francesco Morelli, ridisegnare il mondo

Francesco Morelli, ridisegnare il mondo

Speciale interviste L'ultima intervista rilasciata dal fondatore e presidente dello Ied, istituto europeo di design

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 30 dicembre 2017

A fine ottobre l’aria di Milano è deliziosa. Mi dispiace per tutte le altre città, vi parlo come se fossimo amiche: Milano è meravigliosa, soprattutto in questo periodo. E lo dico da torinese. Milano è fermento, è controtendenza pura. In un paese in cui tutto sta andando inderogabilmente a rotoli Milano funziona. Fibrilla. Saltella. Sbaraglia tutti, su tutta la linea. Milano è Europa? Semplicemente, Milano non è Italia. Cioè non è depressa, non è malinconica, non è lamentosa. Non è fallita. Così ti senti, mentre cammini sotto un cielo blu e affondi le scarpe nelle foglie croccanti cadute dagli alberi nel parco che sta fuori dalla Triennale. Scrivo al presente, ma è passato un po’ di tempo. Quel giorno ero fibrillante anche io, ero un po’ milanese, avevo il passo spedito e la mente sveglia. Era l’inaugurazione della mostra per i 50 anni dello IED, il progetto educativo più milanese che si possa pensare. C’era quell’atmosfera perfetta a fare da contorno, c’erano i rappresentanti di questo presente glam e quelli di una Milano di un tempo con un immaginario pazzesco su questa città, in positivo e in negativo. Ho avuto l’onore, a fine conferenza, di intervistare Francesco Morelli che dello Ied è stato il fondatore e l’inventore. Francesco Morelli è mancato qualche tempo dopo. Non mi era ancora capitato di avere in mano l’intervista ancora inedita di una persona. Morelli è stato quel giorno una ventata d’aria fresca, come la sua Milano. Erano in perfetta sinergia, o almeno entrambe crearono in me un senso diffuso di speranza. La sensazione di poter vivere pienamente le cose e realizzarle, spinta dalla passione. E dalla convinzione. E dal desiderio di fare. Credo questo sia lo spirito Ied morelliano. Mi è sembrato, di avere in mano una sorta di memoriale. Con la speranza di rendere merito a una persona intelligente e gentile.

Qual è secondo lei il segreto di una scuola come lo Ied, che sembra non avere limiti di espansione?

La nostra scuola ha in sé i germi della partecipazione. Siamo un’impresa armonica, coesa e devo dire che tutti sono felici di farne parte. Questa roba qui è nata a Milano da gente generosa, da docenti che insieme alla professionalità hanno coltivato il criterio del dare e darsi. Sono sempre state persone con una competenza molto elevata e con un concetto della vita dove la generosità ha un suo preciso posto. E questo i giovani l’hanno subito percepito. Chi entra in Ied non entra in un mondo ovattato ma in un luogo con grandi energie positive da applicare.

La generosità, la speranza, l’armonia sono concetti svuotati del loro valore oggi.

Apparentemente si. Però, sotto la cenere, sempre ci sono il valore e il sentimento. Ciascuno di noi ha nel profondo di sé un sentimento che germoglia non appena trova il terreno fertile, la realtà giusta che glielo permette. Lo Ied è diventato una specie di comunità, io non l’avevo pensato così. La comunità, oggi, è un luogo dove tutti si aiutano e continuano a collaborare insieme anche una volta che i corsi sono terminati. Non so se definirla un’oasi privilegiata. Forse si. Forse no. Ma è quello per cui ho lavorato tutta la vita, credendoci. Francamente non mi è mai interessato sgomitare.

È una “scuola per ricchi”?

Le nostre tariffe sono un po’ alte. Però. È nata come una scuola erga omnes. Ricordo un ragazzo, non particolarmente dotato, lavorava in fabbrica e aveva molte difficoltà di apprendimento. Lo aiutai per due anni a non mollare i corsi serali. Al terzo sbocciò. Mi telefonò qualche anno dopo, era in partenza per il Kuwait per un lavoro di progettazione “la chiamo per ringraziarla e dirle che sono felice”. Serve a tutti un po’ di aiuto, un po’ di prospettiva. Bisogna dare la speranza a tutti, sempre. Questo è un punto fermo. Ci devono essere elementi di appoggio per tutti noi perché siamo fragili. In questi momenti di cambiamento ancora di più. Stiamo iniziando una nuova epoca e c’è paura del futuro, ci sono tanti elementi destabilizzanti per le giovani coscienze e non solo.

C’è un modo positivo per affrontare questa crisi epocale?

Penso che l’uomo dovrà cambiare la propria filosofia esistenziale, sradicare quell’idea di sacrificio per vivere. Sganciarsi dalla lunghissima tradizione religiosa per cui il lavoro è una condanna. La nuova epoca ci dice delle cose, bisogna ascoltare. La conoscenza e il sapere verranno per primi, la tecnologia ci aiuterà per avere del tempo dedicato a noi, bisognerà solo saperla usare bene. Dovremo abituarci a vivere bene. A saper vivere! Il mondo andrà un po’ ridisegnato. Da una parte c’è la visione per cui le megalopoli saranno luoghi tossici, ma il cittadino che verrà sarà più esigente e sarà riscattato dal bisogno che è una cosa da studiare bene. Qui non si muore più di fame ma la ricchezza si sta spostando e noi viviamo un’epoca di disillusione e di maggiore povertà. Si tratta di cambiare paradigma. Io sono nato povero, ad esempio, oggi ho più mezzi ma non so se sono più felice. Diciamo che lo sono sempre stato, felice. Il segreto è accontentarsi di poco e essere supportati da un’idea di impegno per gli altri. L’idea che tramite un’opera che ho messo in piedi io la gente possa vivere un’esistenza migliore mi rasserena.

Definiamolo il “poco”

Per ognuno c’è una misura del benessere. Io ero felice quando non avevo niente e lo stesso chi mi circondava. Non dovremmo essere invidiosi, serve solo a stare male. Andiamo verso un’umanità che probabilmente lavorerà di meno e avrà molto più tempo libero e non avrà problemi di sussistenza, su questo non c’è dubbio. Io vedo in futuro un’umanità più serena ma che si deve abituare a questa nuova dimensione del cambiamento. Ied è sempre stata la scuola del cambiamento, per guardare oltre e per noi è sempre stato bellissimo!

Cosa ha fatto del design un contenitore di vita?

Si è rivelato essere un concetto magico questo del design. Ma per meriti propri. All’inizio in Italia voleva essere un’opera d’arte che interveniva sulla realtà. Era per la ricca borghesia milanese che alimentava i suoi nuovi vizi. Però ebbero il coraggio, questi ricchi ed esigenti brianzoli, di fare cose nuove, insieme agli architetti. E poi siamo arrivati noi, i primi con l’idea di andare verso i giovani, per prepararli a lavorare. E poi le collaborazioni con le industrie, da Pirelli a Coca Cola, tutte. Ci ha adorato l’industria! Abbiamo partecipato all’evoluzione industriale con idee energetiche e gratuite. A un certo punto gli allievi arrivavano anche dall’Iran, abbiamo creato un mondo! Abbiamo accompagnato l’evoluzione della società italiana soddisfacendo quelle speranze dei giovani per un lavoro creativo in un contesto di crescita dell’Italia. Oggi il design è chiamato a sfide più ardue e, proprio per il successo che ha avuto, ne ha la responsabilità. È il momento del design dei servizi, per produrre benessere nelle scuole, nello sport, negli ospedali, per i vigili del fuoco, nell’intrattenimento. È una sfida molto intrigante. Pruriginosa.

A fine intervista mi commosse.“Complimenti” mi disse “perché fa il suo lavoro con grazia. E mi raccomando: evviva la vita!”

Ricordo il passo leggero in quel primo pomeriggio, uscita dalla Triennale, con la sensazione che, quando meno te lo aspetti, incontri persone gentili, che ti offrono con generosità, una parola che gli piaceva molto e che ha citato tantissimo nell’intervista, la loro esperienza e la loro visione del mondo. Sono stata sua allieva mezz’ora o poco più e, anche a me, ha dato un soffio di serenità. Sono certa che le farà piacere.

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