Visioni

Francesco Giunta, tra cunto e favola

Francesco Giunta, tra cunto e favolaFrancesco Giunta

Musica La Sicilia di Francesco Giunta, cantautore nel solco della scuola di Rosa Balistreri. Il suo nuovo album, «Troppu very well», è un fuoco d’artificio vocale e musicale

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 22 dicembre 2019

A metà degli anni ’60, a Palermo, una supplente d’italiano contravvenne al divieto tassativo di usare il dialetto a scuola, spalancando un libro e leggendo con voce alta e appassionata Appuzza Nica, (dimmi dimmi appuzza nica/dunni vai cussì matinu/ nun cc’è cima c’arrussica/ di lu munti a nui vicinu…) una poesia armoniosamente ritmica sulla piccola ape, scritta nel settecento da Giovanni Meli, molto nota nella cultura popolare siciliana. Uno degli alunni di quella prima media era Francesco Giunta, segnato per sempre da quell’illuminazione, cresciuto coltivando l’amore per il suo dialetto e il rispetto per quelli degli altri.

INIZIALMENTE autore, il suo Li varchi a’ mari, del 1991, da subito si afferma per originalità e interpretazione, primo passo di una carriera di cantautore, nata dopo aver speso una mattinata con Rosa Balistreri per convincerla a cantare i suoi brani, scritti in siciliano. Allora Giunta aveva già trent’anni. «Scrivi delle cose belle, ma le devi cantare tu, perché se te le canto io quannu mori Rosa un canta chiù nuddu», gli disse la Balistreri, grande interprete folk, presente in Ci ragiono e canto, profondamente affascinata dal vasto repertorio regionale, codificato dal ricercatore musicologo Alberto Favara a inizio ‘900 nel Corpus di musiche popolari siciliane.
Giunta, classe 1952, si dedica principalmente alla produzione di concerti e allo sviluppo dell’etichetta discografica Teatro del Sole (chiusa nel 2008) con oltre 60 titoli, 10 sono pubblicazioni interamente dedicate al repertorio della grande artista di Licata, però mette giù canzoni che presenta ai suoi amici dopocena. Il passo successivo di questo cantastorie, dall’aspetto vagamente ieratico per la barba e i capelli canuti, dotato di grande presenza scenica e umorismo contagioso, è esibirsi spesso in giro, tenendo sempre in mente la sua passione: la musica e il recupero del patrimonio culturale e linguistico dell’isola «perché cantare in siciliano è una cosa seria e bisogna riderci sopra».

NEL SUO RECENTE disco, Troppu very well (prodotto da Edoardo «Folkstudio» De Angelis che l’ha inseguito per anni e l’ha fortemente voluto), la registrazione di un concerto dal vivo, lungo un’ora (con l’accompagnamento della chitarra sensibile e attenta di Giuseppe Greco) al Teatro Jolly di Palermo, una specie di summa della sua arte, lunga più di trent’anni. Ci sono alcuni interludi parlati tra le sedici canzoni, in pratica riflessioni sui modi di dire, sui detti e sui proverbi compresa questa filastrocca infantile «Dumani è duminica/ ci tagghiamu a testa a Minica/ Minica non c’è /ci tagghiamu a testa o Re/ u Re è malatu /ci tagghiamu a testa o surdatu/u surdatu è a fari a guerra/ci ’ntappamu u culu ’n terra». L’album è cunto, favola, teatro, osservazioni di vita quotidiana; un fuoco d’artificio vocale e musicale; una gragnuola di fonemi, assonanze, scioglilingua, rime baciate, onomatopee che fanno sorridere anche gli studenti internazionali (su Youtube una sua travolgente long version di Troppu very well con gli universitari di Scienze gastronomiche, a fare il coro, a bordo di una motonave ancorata nel porto).

SU TUTTO si spande la città di Palermo e la lingua amata da Giovanni Girgenti e Ignazio Buttitta, espressioni colloquiali e poetiche, tanto da ragionare sull’etimo di Vucciria o su un completo divertissment lessicale come Cappidduzzu, su situazioni paradossali (A firmata i l’otobus e Mi mettu ccà) e sugli strani personaggi cittadini da Tanuzzu al playboy macchietta anglosiciliano di Troppu verry well, un aggiornamento ideale di Tu’ vuò fa l’americano. E naturalmente il palcoscenico estivo preferito, la spiaggia, con tre brani, Bagni Italia, U bagninu e Che bella la spiaggia, descrizioni liriche di quell’universo popolare che porta «siggiteddi e tavulini/ barattelli, frigoriferi e piattini» con gli inevitabili bambini che devono imparare a nuotare. Per finire Cola scaliava la calia, tutta basata su allitterazioni e omofonie, scandita a velocità crescente, giocando con le parole pescate nei recessi della memoria eppure vive, colorate, palpitanti, in grado di svelarci un mondo d’ineguagliabile ricchezza culturale.

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