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Francesco Dongiovanni, l’occhio non si sazia mai

Francesco Dongiovanni, l’occhio non si sazia mai

Intervista Mostra di Pesaro, il regista racconta il suo lavoro

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 19 settembre 2020

Da una riflessione filosofica e antropologica sul mondo, attraverso l’utilizzo di archivi storici, si muove il cinema di Francesco Dongiovanni che in occasione della 56° Mostra del Nuovo cinema di Pesaro ha presentato il suo ultimo lavoro Non si sazia l’occhio, una riflessione teorica e visiva sul cinema e sul bisogno insaziabile dell’uomo di guardare il mondo attraverso le immagini. Il regista s’immerge all’interno di paesaggi naturali e architetture urbane fino a esplorare immagini d’archivio, dove intercetta e libera più percorsi di analisi e di significato.

Nei tuoi lavori c’è una ricerca sulle storie di comunità che attraverso l’immersione in diversi scenari si sposta su un piano universale. Qual è il tuo rapporto con il paesaggio?
Molti lavori nascono e si evolvono partendo dal rapporto con la mia terra che è molto importante, ma cerco di non fare dei film territoriali; mi piace ragionare e lavorare sull’universalità. Per esempio Elegie dall’inizio del mondo, storia di comunità e di folklore sulla Festa dell’albero di Accettura, è incentrato sul rapporto tra gli uomini e gli alberi e in generale sul recupero dell’archivio di Domenico Notarangelo. Il rapporto con il paesaggio è qualcosa che esiste prima, non riprendo mai dei luoghi che non conosco. Secondo Straub e Huillet, cui mi riferisco spesso, molto cinema contemporaneo utilizza la macchina da presa per depredare un pezzo di realtà. Nel mio caso tento di creare una relazione di comunicazione e non di violenza con quello che voglio riprendere. Questo mi aiuta a creare una connessione che mi consente di essere libero e più sicuro rispetto a quello che sto facendo. I paesaggi per me non sono di passaggio ma luoghi che si sono sedimentati prima, anche rispetto allo sguardo.

Nei tuoi film c’è un richiamo al dualismo tra uomo e natura che riesci a sintetizzare perfettamente attraverso l’immagine.
Questo dualismo tra umano e non umano è un aspetto che mi affascina molto, non soltanto nel cinema ma in generale. Una volta un amico mi disse: sembra che tu riprendi le persone come se fossero dei paesaggi e questi come se fossero delle persone. Non è qualcosa d’intellettualoide ma naturale, ho una connessione tale con il paesaggio che si crea un dialogo quasi da umano a umano o se vuoi, da non umano a non umano. Forse anch’io divento più simile agli alberi, al cielo o al grano.

Questa indagine nasce da una ricerca filosofica personale?
Si, spesso i miei film sono influenzati o hanno una matrice letteraria e filosofica perché non ho una formazione cinematografica specifica, sono laureato in lettere e dopo gli studi universitari ho iniziato un percorso personale passando dall’antropologia alla psicoanalisi, dall’urbanistica alla letteratura e ovviamente a un certo tipo di cinema dove incontrare la poesia, l’architettura e la storia dell’arte. Per esempio The Riddle è il frutto casuale di uno studio lungo e che non sarà mai sufficiente su Goethe, una fonte inesauribile di sapere che il mio cinema non vuole provare a riprodurre ma semplicemente ne è influenzato. Attraverso questo lungo studio ho scoperto Ernest Haeckel e il libro Forme artistiche della Natura da cui prende spunto il film; ma non è sempre così. I documentari di osservazione sono un po’ più legati a contingenze produttive come per I giorni e le opere, film che racconta una parte della Lucania con i suoi riti, dove però si sente tutto il mio amore per l’analisi antropologica e per i testi di Ernesto De Martino.

I tuoi lavori racchiudono più e più significati. Come lavori sull’immagine?
Rispetto al paesaggio mi aiuta molto la fotografia analogica mentre per i materiali d’archivio c’è un aspetto quasi ossessivo di voyerismo. Per Non si sazia l’occhio ho guardato centinaia forse migliaia di fotografie della Guerra Mondiale, per Anapeson ho lavorato su carte geografiche realizzane tra il 1600 e il 1800, in Giano su un archivio fotografico ritrovato nel mio paese. C’è il gusto dell’inabissamento nella moltitudine infinita delle immagini e questo sicuramente è un aspetto che fa parte più della mia nevrosi che della mia formazione. La cosa che m’interessante è capire quanto una singola immagine possa permettere a me e allo spettatore di andare oltre, di bucare l’immagine stessa attraverso un rimando interno ad altre immagini. In Non si sazia l’occhio, le immagini si rimandano una all’altra in continuazione anche quando sono completamente diverse: da una parte un manichino nella vetrina di un negozio e dall’altra un soldato che sembra avere la stessa posa. Penso che il cinema più interessante sia quello che si lascia attraversare e interpretare nella maniera più soggettiva possibile. Un altro elemento d’ispirazione e di studio, proprio nell’ottica di cercare di costruire delle immagini che non siano univoche ma debordanti, sono gli Atlanti di Aby Warburg e il lavoro che ha fatto sul dialogo delle immagini attraverso i secoli.

La parte sonora è molto importante e minuziosa, soprattutto nei lavori in assenza di dialoghi. Come lavori sul suono?
Le musiche sono realizzate da Roberto Salahaddin Re David con cui ho costruito un rapporto profondo. In generale dedichiamo molta attenzione al suono anche in postproduzione e rispetto a un’idea. Per esempio in Non si sazia l’occhio, l’idea era di lavorare partendo da alcune musiche ma in rottura, come se il film si costruisse intorno a degli shock uditivi che rompono quest’assuefazione all’ascolto in riferimento all’ultima parte della frase citata nel film: «Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire», definizione perfetta per il cinema dopo l’avvento del sonoro. Nei miei film cerco sempre di evitare che la musica sia descrittiva ma che segua un suo canale di creazione per poi iniziare a dialogare con le immagini.

«Non si sazia l’occhio», una citazione che ritorna spesso nei tuoi lavori.
Da profano o da persona molto confusa è il sacro con cui cerco di dialogare. È una frase presa dal Qoelet che mi piace molto è con cui ho iniziato ad avvicinarmi al sacro. Mi piaceva l’idea di far dialogare l’architettura, la fotografia, il paesaggio e la religione sempre con questo spirito di organicità. Oltretutto mi sembrata una frase perfetta per definire sia la mia ossessione e il cinema, una macchina che produce in continuazione immagini, sia per definire la condizione esistenziale dell’uomo che non può sfuggire al suo essere uomo-occhio e uomo-orecchio.

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